Oggi il senato ha approvato in via definitiva, senza emendamenti, il testo di riforma della legge fallimentare di cui sono stato relatore alla camera.
Si tratta di una riforma molto ambiziosa e che, a dispetto della colpevole distrazione con la quale è stata trattata dai media, può avere un impatto molto rilevante sul tessuto economico del nostro paese.
La legge è molto articolata e complessa, anche tecnicamente, e dovrà trovare attuazione nei decreti delegati che il governo emanerà entro fine legislatura, tuttavia credo sia possibile tentare una sintesi semplice e comprensibile che ne disveli la rilevanza.
La crisi di questi anni, con il fallimento di decine di migliaia di aziende, e la perdita di migliaia di posti di lavoro, ha messo a nudo i limiti dell’attuale disciplina, più volte aggiornata, ma il cui impianto risale al 1942.
Per quanto infatti siano previsti, nella legge fallimentare, istituti e meccanismi volti a favorire la continuità delle imprese in crisi, essi non hanno mai funzionato correttamente, perché gli imprenditori hanno sempre tardato ad utilizzarli, quando oramai lo stato di decozione e insolvenza era conclamato, e non vi era più nulla da fare.
Questo ritardo ha comportato che molte aziende decotte abbiano trascinato la loro presenza sul mercato anche quando non pagavano più fornitori o fisco, permettendosi di fare prezzi impossibili per le aziende concorrenti sane, e arrivando al fallimento quando oramai il patrimonio era totalmente depauperato.
Ciò ha determinato una spirale negativa, ha contribuito ad avvitare la crisi, perché ha creato problemi di concorrenza sleale alle aziende sane, ha coinvolto i fornitori (altre aziende piccole e grandi, artigiani, professionisti) che si sono visti falcidiati i crediti, pagati con le cifre irrisorie derivanti dalla liquidazione, e infine ha disperso patrimoni aziendali fatti di lavoratori, di competenze, di know how, di esperienze.
Allora la principale innovazione di questa riforma interviene proprio su questo, e introduce nuovi meccanismi finalizzati a fare emergere prima la crisi delle aziende, ad acciuffarle prima che si trasformino in conclamata insolvenza.
Non entro nei tecnicismi, non è questa la sede, ma dico che se come speriamo quei meccanismi funzioneranno, allora noi consentiremo alle aziende in grado di farlo di uscire da una crisi temporanea, e alle altre di uscire più rapidamente dal mercato.
Con ciò salvaguardando i patrimoni aziendali che se lo meritano, i lavoratori di quelle aziende, il buon funzionamento del mercato, e consentendo ai creditori di quelle che non ce la faranno di soddisfarsi su patrimoni più capienti, ottenendo una migliore soddisfazione.
Obiettivi oltremodo ambiziosi, come si capisce, e che riguardano enormi interessi economici: si pensi che solo i crediti degli enti pubblici (agenzia entrate, Inps, comuni, etc) insinuati nei fallimenti pendenti ammontano a oltre 160 miliardi (si miliardi, non milioni…) di euro, e che mediamente vengono pagati all’1,6%. Cosa significherebbe per le sole finanze pubbliche migliorare significativamente quella percentuale di recupero dei propri crediti?
Ma analogo discorso vale ovviamente anche per tutti gli altri crediti privati, il valore economico dei quali non è certamente inferiore a quello pubblico.
Naturalmente la riforma non si esaurisce qui, ma credo che già questo aspetto spieghi l’impatto che essa può avere sulla vita economica del nostro paese, e la ragione per la quale è stata accolta con diffuso favore da pressoché tutti i portatori di interesse, dal mondo delle imprese ai professionisti, dal mondo accademico al settore giudiziario specializzato.
Una riforma, va sottolineato, fortemente perseguita e voluta dal governo, e resa possibile dalla stabilità politica di questi anni, che ha consentito di avere i tempi per insediare una commissione di esperti e portare fino in fondo la proposta da essa scaturita. Un piccolo esempio di ciò che significa, per una politica efficace e concreta, avere davanti a se un orizzonte stabile e non precario.