La sentenza della corte costituzionale sull’aiuto al suicidio è stata celebrata come una vittoria del progresso contro l’oscurantismo, della libertà e laicità contro i vincoli e le gerarchie ecclesiastiche.

Ma siamo certi sia così?

Vorrei provare ad allineare qualche quesito che, senza alcuna pretesa di convincere nessuno, ci faccia uscire da queste semplificazioni.

Intanto ricordo che la sentenza depenalizza il comportamento di chi aiuti concretamente una persona a togliersi la vita in presenza di condizioni particolari molto ben delineate: che si tratti di persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze psichiche e fisiche intollerabili, pienamente capace di intendere e di volere.

Si tratta di una decisione molto impattante sul nostro ordinamento perché, per quella categoria di persone, di fatto non vi sarà più solo l’opzione già oggi prevista dalla legislazione vigente, che consente di rinunciare alle cure, accedendo alla sedazione palliativa profonda, il che vuole dire in parole semplici l’opzione di lasciarsi morire.

Vi sarà anche un’altra opzione, la possibilità di farsi dare la morte. 

Una sorta di passaggio del rubicone, di apertura di una breccia in un sistema costituzionale e giuridico tutto improntato alla tutela della vita, al sostegno alla vita, anche alla garanzia della dignità della morte attraverso la sedazione profonda, e che non tollerava fino a oggi una liceità di comportamenti finalizzati a dare la morte.

Dicevo in esordio che si celebra tutto ciò come un progresso, come la vittoria dell’autodeterminazione e della libertà dei singoli.

Può essere. Magari per noi.

Ma sarà così davvero per tutti?

Se l’opzione della morte immediata, della morte dolce, col corredo di celebrazione che si porterà dietro, diverrà una scelta al pari delle cure palliative, del sostegno psicologico, le persone più sole, più fragili, più vulnerabili cosa faranno? 

Le strutture sanitarie, alle prese con costi crescenti e risorse sempre più scarse, che tipo di informazione daranno a quei pazienti? 

Siamo certi che non vi sarà una pressione psicologica implicita, di contesto, ambientale, familiare, su chi si trova in quelle condizioni, a scegliere la morte come soluzione semplice e veloce, a smettere di lottare, a finirla di procurare disagi e difficoltà ai propri familiari?

E perché destinare risorse crescenti al sostegno alla vita di pazienti che potrebbero utilmente scegliere la morte immediata?

Non c’è il rischio che l’offerta crei la domanda, che la morte tramite iniezione diventi una sorta di auspicio e desiderio diffuso, che divenga la via più semplice per uscire dalla sofferenza, soprattutto per i più fragili e soli?

Non sono domande banali, perché indicano il piano inclinato sul quale rischiamo di scivolare, quello della rottamazione consensuale della vite deboli, di quelle considerate dall’etica individualista ed edonista indegne di essere vissute.

E domande, si capisce, che non riguardano solo la morale cattolica, ma evocano questioni antropologiche fondamentali per chiunque voglia guardare al di là della propria sfera individuale, per chi ritiene che la democrazia sia regno di libertà ma non solo, anche di solidarietà e di giustizia.

Allora non banalizziamo, finiamola di semplificare questioni complesse, facciamo lo sforzo di capire le questioni di fondo di scelte etiche così rilevanti.

Noi, la politica, cercheremo di fare la nostra parte, di costruire soluzioni normative nuove che tengano conto di quanto la corte ha deciso.

Lo faremo, lo farò, cercando il consenso più ampio e largo possibile, nella consapevolezza che su questi temi, soprattutto su questi, sull’ampiezza della condivisione si misura la qualità della scelta legislativa, e la sua capacità di durare nel tempo.