Sono stati giorni difficili quelli passati.

Alle difficoltà di avvio di un governo nato, come tutti sappiamo, in modo del tutto repentino e inaspettato, attraverso un cambiamento radicale degli assetti politici del paese maturato in una decina di giorni a cavallo di ferragosto, si è aggiunto un altro fulmine a ciel sereno, la decisione di Matteo Renzi di separarsi dal partito democratico, ovviamente portandosi dietro un pezzo di gruppo dirigente e di parlamentari.

Una scelta anch’essa inaspettata, quanto meno per i tempi anch’essi improvvisi, più che per la decisione in sé, che in qualche modo da parecchi mesi era nell’aria.

Senza scomodare sentimenti che a ben altre vicende della vita devono essere riservati, devo ammettere che la cosa mi ha amareggiato, intanto per il fatto che con Renzi, e con il gruppo di parlamentari e di persone sul territorio che lo hanno seguito nella nuova avventura, ho fatto un lungo pezzo di strada del mio percorso politico, cinque anni densi, impegnativi e ricchi di risultati positivi.

Ma la cosa che più mi ha deluso e colpito è che quella scelta rappresenta, a mio avviso, l’esito di un processo di progressivo allontanamento da una idea, da una prospettiva, da uno spirito che io avevo considerato essere il fondamento, il terreno su cui  si era incamminato Matteo Renzi: ovvero quello di irrobustire, o forse meglio, di completare le fondamenta del partito democratico.

Quando lo sostenni, insieme a pochi, nelle primarie poi perse con Bersani, ebbi modo di dire che, grazie a quella sfida, che rompeva con le tradizioni e innovava profondamente nel linguaggio e nelle parole d’ordine, era finalmente nato il partito democratico, quello vero, aperto, plurale, contendibile, aperto al futuro.

E ciò fu certamente possibile grazie alla sua leadership coraggiosa, ai limiti dell’azzardo, e carismatica, che lo avrebbe poi portato, nel giro di poco tempo, a vincere con una cavalcata travolgente le primarie per la segreteria del pd, e poi a diventare presidente del consiglio.

In quella stagione il partito democratico ha cambiato pelle, è divenuto simbolo della speranza del paese, del cambiamento possibile, del coraggio e dell’apertura.

Ma vi era un piccolo virus che minacciava quella stagione, che si agitava, che inoculava le sue tossine, che ha prodotto guasti e danni, e che alfine ha determinato anche la rottura definitiva.

Un virus subdolo e infido, perché mascherato da virtù.

Il virus della personalizzazione della politica, della trasformazione delle idee della politica in una incarnazione personale e individuale, nel leader carismatico, capace di trasformare il suo carisma in voti.

Quella leadership carismatica è stata, ed è, la grande virtù di Matteo Renzi, che però non è mai riuscito a fare il passo avanti, come ho sempre sperato e immaginato, per trasformare questa grande dote personale in una grande virtù politica, in un grande fatto politico. E ciò ha finito per portarlo alle sconfitte, e per deludere le aspettative di chi, come me, aveva creduto in quella stagione.

E’ la storia di questi anni, di una crescente autoreferenzialità che ha impedito di coinvolgere persone e territori nella elaborazione di un pensiero più profondo e solido, della trasformazione di un grande risultato politico, l’approvazione di una innovativa e coraggiosa riforma costituzionale, in un plebiscito personale, dell’incapacità di fare un passo di lato dando sostegno ad altri.

Emblematica sotto questo ultimo profilo la vicenda di Minniti, candidato in pectore di un’area riformista che avrebbe sfidato con grandi chance di successo Zingaretti per la segreteria del partito democratico, ma ritiratosi a fronte delle ambiguità di un leader incerto se sostenerlo, e indeciso se stare dentro il partito.

E infine quest’ultima vicenda, lo strappo consumato nei confronti del partito democratico, la chiusura repentina con il percorso interno al pd, con le ambizioni di trasformarlo, con la stagione riformista.

Una scelta anche questa tutta individuale, discussa con pochissime persone, e all’insegna di uno slogan più o meno implicito, e non a caso rilanciato da tutti i suoi sostenitori: il riformismo sono io, senza di me il pd diventa un partito della vecchia sinistra.

Intendiamoci, io ero e resto consapevole dell’importanza della leadership nella politica di oggi, e ben sapevo quanto questo fattore contasse e ancora conti nella figura di Matteo Renzi, anzi ero ben felice che anche il partito democratico potesse esprimere finalmente una figura carismatica.

E tuttavia ero persuaso che la sua scelta di giocare dentro il campo del partito democratico, dentro la sfida con altre culture politiche unite da un comune destino, dentro un orizzonte largo, la sua decisione di non recidere il legame con questa grande comunità, tutto ciò avrebbe consentito di valorizzare quella leadership, di contenerne le spinte solitarie e individuali, di realizzarsi dentro un disegno più ampio utile al paese.

Per questo oggi sono profondamente deluso, perché a fronte di quel talento e di quelle ambizioni registro invece un epilogo modesto, che invece di valorizzare il partito democratico lo spacca, invece di rafforzarne la cultura riformista la indebolisce, invece di giocare in un campo largo preferisce un perimetro più sicuro ma più angusto.

Può darsi che abbia ragione lui, che il futuro del nostro paese sia in partiti di questa natura, che nascono e muoiono con i leader che li guidano: ma io, tra una democrazia di partiti personali, ed una in cui i partiti non contano più perché decidono gli elettori davanti allo schermo di un computer, preferisco la via intermedia, quella sancita dall’art. 49 della costituzione.

Per questo mi tengo stretto il partito democratico, e intendo continuare a lavorare perché sia all’altezza delle sfide complicate e decisive che abbiamo di fronte.

Lo farò insieme a tante persone che hanno condiviso con me il sostegno all’area di Matteo Renzi in questi anni, e che hanno preso atto con amarezza della sua scelta decidendo di rimanere nel partito democratico, da Lorenzo Guerini a Graziano Del Rio, a Stefano Ceccanti, a Enrico Borghi e tanti altri, nella convinzione che senza un grande partito di governo riformista, plurale, inclusivo, e a vocazione maggioritaria non ci sarà mai una alternativa alla destra populista e sovranista crescente nel nostro paese.