Sotto la guida di Renato Mazzoncini negli ultimi tre anni le ferrovie dello stato hanno chiuso bilanci con utili crescenti e mai così elevati, hanno aumentato gli investimenti fino alla cifra record di 8 miliardi di euro, hanno impostato uno svecchiamento dei treni per il trasporto locale che porterà, l’anno prossimo, l’età media dei mezzi da 24 a 9 anni, hanno aumentato i passeggeri totali del 25%, hanno impostato una politica di sinergie con il trasporto su gomma che costituisce la miglior premessa per aumentare la quota di merci e persone che viaggiano su ferrovia.
Risultati numerici indiscutibili, che consentono oggi a ferrovie di competere alla pari con i concorrenti francesi, tedeschi e inglesi.
Ieri l’ineffabile ministro Toninelli, occhi di ghiaccio e sguardo assente, ha destituito Mazzoncini e l’intero cda, con l’orgoglio degli stolti e dandone annuncio sull’amato Facebook, dichiarando che “si chiude con il passato”.
È sicuro il ministro?
Si chiude con il passato oppure si sbarra la strada al futuro?
Perché cambiare un management che vanta questi risultati non appare esattamente lungimirante, ed appare anzi evidente che la scelta sia stata dettata dall’appetito di posti, dallo spirito di vendetta, dal cambiamento fine a se stesso.
Non esattamente un grande segno di innovazione, anzi, il ritorno al cupo passato di uno spoil sistem di natura solo politica, di puro potere, che prescinde da qualità e risultati, e non risparmia le grandi infrastrutture dello stato, mettendone a rischio la solidità.
Questo episodio a me pare emblematico, se allargo lo sguardo alle prime misure del governo, di un modo di procedere, di una attitudine a sfruttare la retorica del cambiamento per giustificare ogni scelta, ogni decisione, e che serve semplicemente a mascherare inadeguatezza, superficialità, vecchie logiche spartitorie.
È la stessa logica, per fare un esempio, che caratterizza il decreto Di Maio, un insieme abborracciato di modifiche delle norme sul lavoro che serve a mandare un messaggio chiaro agli elettori: “noi vogliamo combattere la precarietà del lavoro”, ma che rischia di produrre effetti perversi e controproducenti, ovvero un aumento della disoccupazione e del lavoro nero, perché scritto in tutta fretta, senza alcuna verifica approfondita, senza alcun disegno complessivo.
Una norma spot, utile alla propaganda, ma dannosa per il paese.
Di questa grande mistificazione il paese si accorgerà presto, forse prima di quanto pensiamo: speriamo solo che i danni prodotti non siano irreversibili.