Nelle prossime settimane, verosimilmente entro aprile, approveremo in quarta lettura la riforma costituzionale, che andrà poi in autunno al referendum popolare con il quale i cittadini italiani saranno chiamati a decidere se farla entrare in vigore.Per capire verso quale appuntamento ci stiamo avviando, credo sia utile una breve disamina delle convulse vicende politiche che abbiamo vissuto negli ultimi anni, e che ci possono aiutare a capire su quale strada siamo incamminati.

E vorrei partire da quel mese di marzo del 2013 che rappresenta, a mio avviso, l’apice della più grave crisi politica, istituzionale ed economica del nostro recente passato.

Non stiamo parlando di un’era geologica, ma solo di pochi anni fa, eppure vale la pena di soffermarsi un momento sul clima di allora.

Il paese viveva già da tempo una condizione di evidente declino economico, che almeno dal 2008 aveva assunto le caratteristiche di una recessione conclamata, ma la cui origine in realtà era da retrodatare di parecchi anni.

Vi sono alcuni dati piuttosto impressionanti, a supporto di queste valutazioni, che testimoniano come nel periodo tra il 2000 e il 2011, dunque per tutti gli anni 2000 e fino a ben dopo l’inizio della recessione, l’Italia si colloca al terzultimo posto tra 158 economie mondiali monitorate per crescita del prodotto interno lordo.

Quei dati ci dicono anche che durante la crisi, che ufficialmente è finita solo l’anno scorso con l’uscita del paese dalla recessione, il pil si è ridotto ai valori del 1996, la produzione industriale è crollata del 25%, i disoccupati e i poveri sono raddoppiati.

Dunque il paese si trovava già, tre anni fa, fiaccato da una situazione economica davvero preoccupante, da una crisi senza precedenti, da una perdita continua e inarrestabile di competitività, di produzione, di posti di lavoro.

Ed era minato da una perdita di fiducia nella politica e nelle istituzioni che trovava robuste ragioni nella inettitudine del governo Berlusconi, e aveva trovato legittimo sfogo nello strepitoso consenso che, alle elezioni di febbraio, aveva raccolto un movimento di protesta che si presentava per la prima volta alle elezioni, il movimento 5stelle.

Quel consenso, inaspettato in quelle dimensioni, aveva consegnato al paese – grazie anche ad una legge elettorale irragionevole e sballata, oltre che incostituzionale come avrebbe sancito la corte di lì a poco – un parlamento di fatto ingovernabile. Una maggioranza ampia per il PD alla camera, peraltro frutto dello smisurato premio assicurato da quella assurda legge elettorale, ma una fotografia piuttosto fedele della tripartizione dei voti tra centrosinistra, centrodestra e m5s al senato, con conseguente apparente impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare a sostegno di un governo.

Non solo ma si sovrapponeva, a quella obiettiva difficoltà politica, l’incertezza istituzionale legata alla imminente scadenza del mandato di Napolitano, e dunque la necessità di eleggere un nuovo presidente.

In quel frangente, uscito dalle urne con le ossa rotte, quanto meno rispetto alle aspettative della vigilia, il partito democratico era riuscito nell’intento di complicare ancor più la crisi politica e istituzionale, bruciando uno dopo l’altro due candidati al Quirinale, nello sgomento dell’opinione pubblica, italiana e non solo.

Ricordo bene quei giorni drammatici, dopo l’affondamento di Romano Prodi, le lacerazioni interne al PD, la sensazione che si fosse perduta ogni capacità di guida, che il paese fosse allo sbando, con Grillo che minacciava di venire a Roma alla testa dei suoi a circondare il Parlamento.

La via di uscita da quello stallo pericoloso venne individuata in quelle ore difficili, e credo non si potesse fare altrimenti, supplicando il presidente uscente di rompere una prassi consolidata e di venir meno ad un suo impegno, dando la sua disponibilità ad un secondo mandato, in modo che la crisi politica potesse essere gestita da una mano esperta, che già aveva retto il timone nella tempesta che aveva obbligato Berlusconi un anno e mezzo prima alle dimissioni.

Napolitano accettò, a due condizioni: la prima, resa esplicita nel bellissimo discorso di insediamento, che la politica si facesse carico per intero della propria responsabilità, tanto più alta e gravosa in ragione della crisi in atto, la seconda, implicita e non dichiarata, che il suo impegno sarebbe stato a termine.

Si avviò li, in quel modo rocambolesco, il percorso che ci ha portato fino a qui.

Un tragitto complicatissimo, pieno di ostacoli e trappole, originato da una presa coscienza, da una resipiscenza di responsabilità, da un sussulto di dignità della politica.

Resistemmo allora ad un vento che soffiava forte nell’opinione pubblica, nei media, sui social network, nei circoli di partito, che invocava il ritorno alle urne immediato, chi per evitare di sedersi al tavolo con gli avversari, chi per una rivincita, chi per un supplemento di verifica, chi per una conferma. Un esito che io credo avrebbe avvitato ancor più la crisi, avrebbe mostrato il fallimento estremo di una classe politica, avrebbe consegnato il paese ai rischi e alle incertezze dei populismi crescenti.

E invece, sulla scorta di un ammonimento che ci obbligò a confrontarci con la nostra responsabilità, abbandonando la strada per lo più praticata nella politica di oggi dell’opportunismo, decidemmo di provare a trasformare quella crisi drammatica in una occasione, di allargare un pertugio che si riuscì a intravedere.

Perché l’unico modo per uscire da quel vicolo cieco era quello di stringere un accordo largo, il più ampio possibile, tra partiti molto diversi tra loro per impostazione, filosofia politica, natura, per dare un governo al paese in grado di affrontare l’emergenza economica, ma anche per tentare quelle riforme di sistema che solo mettendo insieme forze diverse e contrapposte, maggioranza e opposizione sono possibili, quelle riforme tanto perseguite negli anni passati e mai conseguite.

Riforme di cui quella del nostro assetto istituzionale era un perno insostituibile.

La legislatura ebbe dunque la forza di iniziare e di proseguire, nonostante le difficoltà, nonostante la sfiducia e la marea montante della reazione di rigetto dell’opinione pubblica, perché si decise di trasformare la necessità di un accordo largo per dare vita ad un governo, nell’occasione imperdibile di affrontare insieme e portare a termine le riforme di sistema tanto cercate e mai raggiunte nel passato.

Con questa consapevolezza, con questi obiettivi è riuscita a partire, e si è via via consolidata la legislatura.

Tanto ciò è vero, che una delle prime decisioni che il neo premier Letta, di concerto con Napolitano, assunse, fu la costituzione di una commissione formata da tutti i più autorevoli costituzionalisti italiani, che si applicasse a individuare linee di riforma istituzionale condivise, e che nel giro di qualche mese consegnò i suoi lavori al parlamento.

Quella commissione riassunse le sue riflessioni in sei capitoli, dedicati ad altrettanti temi di riforma che pressoché unanimemente vennero individuati come i più rilevanti e centrali per riformare e migliorare l’assetto istituzionale del paese: bicameralismo paritario, procedimento legislativo, titolo V, forma di governo, sistema elettorale, istituti di partecipazione popolare.

E su quei punti si è concentrata l’azione del parlamento.

Inizialmente si pensò di insediare una commissione bicamerale, che avrebbe avuto il compito di elaborare un testo condiviso, da sottoporre poi all’assemblea per l’approvazione.

Un iter che incontrò fin da subito le resistenze di molti dei costituzionalisti che oggi si scagliano anche contro la proposta di riforma approvata, e che invece a mio avviso avrebbe evitato alcune lacune del testo attuale, dovute proprio alla navetta della legge tra camera e senato che quella commissione avrebbe evitato, e che ha comportato una stratificazione di modifiche non sempre coerenti e appaganti.

Ma le ragioni di opposizione di costoro, allora come oggi, risiedono a me pare più nella difesa di una purezza originaria, di una intangibilità di fondo del testo, nella idea che dopo la stagione costituente nessuno, tanto meno l’attuale parlamento (e figuriamoci persone come Renzi e Boschi!), abbia una statura e levatura degna e all’altezza di interventi sul testo.

Motivazioni cioè pregiuridiche, pregiudiziali e parapolitiche, che a mio avviso influenzano in modo evidente anche il giudizio ipercritico sul merito.

In ogni caso, la legge costituzionale che istituiva la commissione si arenò alla terza lettura, e venne poi abbandonata anche per l’arrivo di Renzi alla guida del PD, e poi al governo del paese.

Con la nuova leadership le riforme, che parevano aver subito una irreversibile battuta d’arresto, ripresero impulso, in particolare grazie all’accordo che venne stretto con Forza Italia (il famoso patto del Nazareno), sia sulla nuova legge elettorale, sia sull’iter e il merito della riforma costituzionale.

Si abbandonò l’idea della commissione bicamerale, e si decise di utilizzare il procedimento di revisione ordinario della costituzione, quello previsto dall’art. 138, che prevede la doppia lettura nei due rami del parlamento.

Nei due anni che da allora sono trascorsi si è trovato un accordo molto largo, ben oltre il perimetro del centrosinistra, che ha consentito di mettere a punto una legge elettorale e un testo di riforma costituzionale sul quale i maggiori partiti di centrosinistra e centrodestra, con l’esclusione del movimento 5 stelle (che peraltro, per ragioni intuibili ed esclusivamente politiche, non avrebbe sottoscritto e condiviso neanche le riforme più banali e indiscutibili), hanno convenuto. Ed è solo per ragioni di tattica politica, e in particolare per la reazione di Berlusconi all’elezione di Mattarella a Presidente della Repubblica, che Forza Italia, o per meglio dire ciò che ne è rimasta dopo le numerose microfratture parlamentari subite, si è alla fine sfilata.

Ricordavo prima i capitoli principali del documento finale della commissione sulla riforma insediata a inizio legislatura. E non a caso, poiché il testo di riforma costituzionale che abbiamo approvato già in tre letture affronta esattamente quei capitoli, quelle questioni, con l’unica eccezione della forma di governo, che non è stata toccata, e della legge elettorale, che ovviamente è stata affrontata a parte.

Il parlamento si è cioè concentrato sui temi che per unanime riconoscimento non solo della politica, ma di tutti gli studiosi, rappresentano le obiettive esigenze di aggiornamento e riforma dello nostri meccanismi istituzionali.

Il tutto con alcuni obiettivi. Quelli di snellire, di semplificare i meccanismi istituzionali, di migliorare la qualità della nostra legislazione, di rendere più stabile e meno precario il nostro assetto politico, di dare più strumenti e più efficaci all’azione di governo.

Detto altrimenti, tentare di dare più forza e qualità alle nostre istituzioni, e per questa via più autorevolezza e ruolo alla politica, nella idea che l’instabilità del nostro quadro politico, trasformandosi in debolezza e inettitudine dei nostri governi, non solo ha pregiudicato la capacità riformatrice degli esecutivi, non solo ha indebolito il nostro paese nelle istituzioni sovranazionali e in particolare in Europa, ma ha finito anche per alimentare quel clima di sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni che oggi pare il mainstream prevalente, in un meccanismo perverso che toglie alla politica ogni capacità di visione e la rende sempre più asservita al conformismo.

Si è lavorato dunque, in questi due anni, grazie all’impulso del governo, senza il quale sarebbe stato impossibile raggiungere il traguardo, su quei capisaldi di cui prima dicevo, cercando di individuare le soluzioni più equilibrate, più condivise, più ragionevoli su ciascuno di essi.

E ovviamente nei diversi passaggi parlamentari, ma anche a seguito delle discussioni interne a ciascun soggetto politico che ha concorso all’approvazione, il testo ha subito evoluzioni e modifiche anche sostanziali, che a volte hanno migliorato alcuni aspetti, in altri casi hanno finito per comprometterne in qualche particolare la chiarezza.

Sulla legge elettorale, si è trovato nel ballottaggio il meccanismo che ha messo d’accordo centrosinistra e centrodestra, per conciliare le esigenze di stabilità con quelle della rappresentatività.

Un ballottaggio a due tra le liste più votate, non di collegio, con un premio di maggioranza non esuberante, 340 seggi su 630, la suddivisione dell’Italia in 100 collegi di dimensioni abbastanza ridotte, il capolista bloccato e gli altri candidati eletti tramite le preferenze, con il doppio voto di genere, e una soglia bassa, il 3% dei voti, per l’accesso al riparto dei seggi.

Una legge elettorale con qualche obiettiva criticità, ma di certo con alcuni pregi indiscutibili, tra cui la certezza immediata dell’esito elettorale, attraverso un meccanismo già abbondantemente sperimentato e certamente in grado di legittimare il vincitore.

Sul bicameralismo si è scelta la strada di gran lunga preferita anche dagli esperti: la trasformazione del senato in camera delle autonomie, mantenendo il rapporto fiduciario del governo solo con la camera dei deputati, e assegnando al senato un compito generalmente sussidiario sul piano legislativo, salvo alcune materie tra cui quelle di revisione costituzionale e quelle in materia di decentramento e autonomie, per le quali si è mantenuto l’attuale procedimento legislativo bicamerale.

La scelta conseguente è stata quella della composizione del senato, che si è preferito fosse formato da rappresentanti eletti nelle regioni, e da pochi sindaci, per evitare che, attraverso una elezioni popolare diretta, vi fosse asimmetria tra la sua forza e composizione politica e le sue competenze.

Si è introdotto un nuovo procedimento legislativo, quello della legge a data fissa, in modo da dare all’esecutivo un nuovo strumento di attuazione del proprio indirizzo politico, e si sono disciplinati limiti più stringenti alla decretazione d’urgenza, così da metterne fine all’abuso, che tanti vizi anche nella qualità della tecnica legislativa ha prodotto.

Si è messo mano al rapporto tra stato e regioni, per fare cessare l’enorme contenzioso istituzionale, e dare confini più chiari e limpidi tra le rispettive competenze, sia legislative sia regolamentari e amministrative.

Si sono introdotti significativi correttivi all’istituto del referendum, alle modalità e agli effetti dell’iniziativa legislativa popolare, e tanti altri più o meno rilevanti aggiustamenti.

Ora, io so bene che ciascuna delle modifiche, ciascuno dei meccanismi nuovi, ciascuno degli strumenti e delle scelte sopra sommariamente descritte si prestano a critiche, contengono qualche vizio, potevano essere scritte e impostate meglio.

Non è difficile l’esercizio della critica su quanto fatto, anche perché è impossibile la virtù della perfezione.

Ma se, come io credo, occorre dare una valutazione complessiva, in certo senso politica di ciò che è stato fatto, del punto cui siamo arrivati, della posta in gioco per il nostro paese, allora la critica, quand’anche puntuale, ben argomentata e condivisibile su singoli punti e questioni, deve a mio avviso recedere, e occorre riconoscere che oggi, in modo totalmente insperato se si guarda a quella crisi acuta che abbiamo vissuto a inizio legislatura, abbiamo davanti a noi una occasione unica.

Oggi siamo arrivati in fondo ad un percorso straordinariamente difficile e complesso, e abbiamo la possibilità, mai così vicina prima d’ora, di rinnovare il nostro assetto istituzionale secondo linee direttrici ampiamente condivise, secondo un modello complessivamente equilibrato, non dirompente, che non velleitariamente può consentire un grande passo in avanti nella direzione di quegli obiettivi di semplificazione e stabilizzazione del nostro assetto politico e istituzionale tanto necessari al paese. 

Certo, ci siamo assunti una grande responsabilità quando abbiamo intrapreso questo percorso, sappiamo che scelte così impegnative e gravose non sono prive di rischi e azzardi, ed è legittimo, io direi perfino doveroso, avere dubbi quando si affrontano materie così delicate come la riforma dei meccanismi istituzionali, la riforma della carta fondamentale.

Ma non era e non è, io credo, il tempo della timidezza, occorre essere pari alla crisi che abbiamo attraversato.

Una volta approvata in quarta lettura la riforma, consegneremo nelle mani degli italiani la responsabilità che ci siamo assunti. 

E io sono fiducioso che sapranno fare la scelta giusta nell’interesse del paese, consapevoli che se fallisce anche questo tentativo, se sprechiamo anche questa occasione, la porta delle riforme si richiuderà per molto tempo a venire.