Io non sottovaluto le questioni poste dalla minoranza interna al PD, da ultimo alla scorsa direzione.Ho stima per Cuperlo, che siede dietro di me sui banchi della Camera, e so che non basta fare una battuta, o banalizzarne le posizioni, per liquidare o accantonare le critiche da lui formulate.
E aggiungo, a scanso di equivoci, che non appartengo, ne onestamente apprezzo granché, ai servi zelanti del leader di turno, al gruppo dei più lealisti del re, a coloro che non tollerano e non concepiscono alcuna critica, che aderiscono come ad una professione di fede al verbo del capo.
Mi spingo a riconoscere, dunque, che alcune delle questioni poste, riguardanti la qualità del dibattito interno al PD, la condizione complessiva del partito, le modalità di scelta e la composizione del gruppo dirigente, sono tutt’altro che secondarie, e colgono alcuni aspetti sui quali occorre una riflessione seria e non banale.
E anche tutto il resto, e cioè le critiche attinenti alcune scelte di merito del governo, appartiene alle diverse sensibilità di ciascuno, e ha piena e legittima cittadinanza dentro un grande partito, anzi l’unico vero grande partito popolare ancora esistente in Italia.
Nulla però riesce a togliermi dalla testa una sensazione, figlia anche delle modalità e della tempistica di queste critiche.
E cioè che da parte di chi oggi siede in minoranza nel partito democratico non si siano fatti i conti fino in fondo con il significato e la natura di questo soggetto politico.
Che non è l’ennesima filiazione e costola della sinistra storica di questo paese, ma qualcosa di più e di diverso, ovvero un partito nato con l’ambizione di superare le eredità del novecento, e di diventare un grande soggetto politico in grado di diventare baricentrico, conquistando la maggioranza dei voti degli italiani di oggi. Con valori ben ancorati nella tradizione del solidarismo e liberalismo propri di un certo ambito della sinistra, del cattolicesimo politico, del socialismo italiani. Ma un partito del nuovo millennio.
Nel quale, dunque, anche gli eredi del grande partito della sinistra tradizionale, suoi cofondatori, possono trovarsi in minoranza. Come del resto è sempre capitato in tutti i grandi movimenti politici progressisti occidentali, nei quali si sono alternati momenti in cui sono prevalse posizioni più liberali, ed altri in cui vi è stata una trazione più laburista.
E non per caso io sono fortemente persuaso che il vero partito democratico, quello per il quale ci siamo battuti, sia nato proprio con la segreteria di Renzi, che ha consentito finalmente il grande balzo in avanti che ci ha fatto entrare nella contemporaneità.
Ecco, a me pare che la sinistra interna non abbia ancora superato questa sindrome del padrone sfrattato da casa sua, che vive questa nuova stagione come se un infiltrato abusivo avesse occupato la sua dimora, come se la prima esigenza fosse quella di riprendersi la casa, costi quel che costi, in quanto cosa propria e non di altri.
Non mi spiego altrimenti questa tendenza oramai conclamata a sottolineare ogni piccolo o grande ostacolo sul percorso del governo, a sfruttare ogni inevitabile guaio o mezzo passo falso per criticare, per seminare dubbi, quando non per gettare fango e discredito. Non sugli altri, ma sul proprio governo, sul proprio partito, come una qualsiasi opposizione alla maggioranza. Come i grillini, che infatti hanno lanciato l’offerta alla minoranza PD di votare insieme la mozione di sfiducia al governo.
Offerta respinta, naturalmente, ma che segnala una contraddizione sempre più evidente.
Allora, io credo che così non sia possibile procedere oltre, soprattutto se come me si ha a cuore l’unità del partito, ovvero la necessità di tenere unite le sensibilità diverse che dentro un grande partito devono sentirsi rappresentate.
Ma ognuno deve fare la propria parte.
Io ammetto che occorre, da parte della maggioranza, da parte del segretario, da parte di chi governa oggi il partito, uno sforzo in più nella discussione interna, una maggiore capacità di elaborazione e riflessione politica, una migliore attitudine alla valorizzazione di talenti e capacità, una dialettica più efficace con il governo.
Vi sono limiti evidenti, sotto questi profili, ed occorre più attenzione.
Ma la minoranza non può continuare a sparare sul pianista. Quel pianista, che piaccia o no, è oggi il leader del partito democratico, è stato scelto dallo stesso popolo di centrosinistra che pochi mesi prima aveva preferito Bersani, è il legittimo capo di un governo che, con tutti i suoi limiti, sta producendo il più imponente sforzo di trasformazione che il paese abbia conosciuto negli ultimi decenni.
Non può non stare dentro questo percorso, la sinistra interna, pena la lacerazione del partito. Si assuma oggi la sua quota di merito per il cambiamento che il partito democratico sta producendo, che non è certo tutto e solo merito di Renzi, ma di un’intera comunità politica di cui la sinistra fa parte.
E si attrezzi per il prossimo congresso, se può e ci riesce. Profili un’alternativa credibile a Renzi, sia in termini di impostazione politica, sia in termini di leadership, sia in termini di visione del paese. Lì ci si confronterà, e iscritti, militanti e simpatizzanti decideranno. Quello è l’appuntamento per la sinistra, per l’attuale minoranza interna.
Ma lo stillicidio continuo e ininterrotto di veleno rischia solo di produrre crepe sempre più profonde. E forse alla fine irreparabili.