Allorché nel 1993, in piena epoca di Mani pulite, la procura di Palermo decise di avviare un’inchiesta su Andreotti, in mezzo al generale plauso del mondo di sinistra si levò una voce solitaria, quella di Emanuele Macaluso, dirigente storico del Partito comunista, che mise in guardia dai rischi legati a quell’iniziativa giudiziaria.

La tesi di Macaluso, che ricordo colpì molto anche me, allora giovane studente di giurisprudenza vicino alla Rete di Orlando, in buona sostanza era che bisognava evitare di mettere sotto processo, attraverso Andreotti, l’intera politica italiana del Dopoguerra, perché non è il processo penale il luogo deputato a esprimere giudizi, valutazioni e sanzioni che riguardano condotte politiche. Macaluso, che pure non è un giurista, avvertiva acutamente il rischio allora particolarmente evidente di una pericolosa sovrapposizione tra azioni giudiziarie e scelte politiche, sostanzialmente lesiva dei principi liberal-democratici di separazione di poteri.

La lettura del lucidissimo scritto del prof. Fiandaca, pubblicata su questo giornale, circa il processo sulla trattativa stato-mafia incardinato oggi presso il tribunale di Palermo mi conferma nella convinzione, che pure avevo maturato da tempo, che ci troviamo in questo caso sullo stesso piano inclinato di allora. Con l’aggravante che mentre nel caso di Andreotti si metteva sotto processo una persona, che pure rappresentava la politica italiana del Dopoguerra, oggi nel mirino dei giudici sono finiti tutti, destra e sinistra politica, servitori dello stato e mafiosi, istituzioni repubblicane e servizi segreti, in una fanghiglia indistinta nella quale finisce per sbiadirsi ogni differenza tra bene e male, tra buoni e cattivi.

Ha già sottolineato il professor Fiandaca la debolezza, sotto il profilo della fondatezza giuridica, dell’impianto accusatorio della procura, sia quanto alle fattispecie di reato richiamate, sia quanto alle condotte ipotizzate. Ma ciò che a me pare irragionevole nella narrazione dei fatti che traspare dagli atti d’accusa, e che è stata in buona parte ripresa nella sintesi mediatica arrivata all’opinione pubblica, è proprio la riduzione della complessità della storia, nella quale anche la politica è costretta a muoversi con difficoltà, a una sostanziale semplificazione che, dentro un evidente pregiudizio nei confronti degli uomini delle istituzioni repubblicane, induce a colorire di malizia ogni scelta fatta in momenti difficili della nostra vita democratica.

Il che è certamente consentito sul piano della ricostruzione storica, della valutazione politologica affidata a opinionisti, osservatori e sociologi, ma non può diventare il fondamento di un’azione penale che rischia di trasformare il processo in un’occasione di valutazione e sanzione politica, in un’occasione di “rivoluzione civile”, come il significativo nome dato dal dottor Ingroia al movimento politico da lui costituito, anche sull’onda della popolarità derivante dall’inchiesta da lui condotta.

In ragione di questa impostazione, a me pare, la procura di Palermo ha ritenuto di dover coinvolgere nella sua indagine i vertici delle maggiori istituzioni del paese dell’epoca, dal presidente della Repubblica al ministro della Giustizia, dal capo della polizia ai generali dei carabinieri, dal leader di un partito al vicepresidente del Csm, dentro un’area grigia di complicità e connivenze che impone un marchio pesante sulle nostre istituzioni, e contribuisce ad alimentare il senso di diffidenza e repulsa già così radicato nell’opinione pubblica.

Voglio allora ribadire che non penso la storia di questo paese possa essere ridotta a una lettura così misera e viziata, e al contrario che, anche al di là e oltre gli esiti processuali di questa inchiesta, la lealtà complessiva alla Repubblica delle istituzioni democratiche, e di coloro che le hanno rappresentate anche nei momenti più difficili del Dopoguerra, non è mai venuta meno, e la responsabilità di singoli o di gruppi in episodi specifici, tutt’altro che improbabile ed anzi in talune vicende già accertata, non può inficiare questo giudizio. Giudizio esattamente politico.

Riflessione pubblicata su Il Foglio – 18 giugno 2013