Non è un rituale stanco il nostro 28 maggio.
Non lo è per noi familiari, costretti a rivivere la lacerazione dell’amputazione degli affetti, il senso di vuoto, le immagini terribili dei nostri cari riversi sulle pietre.
Costretti a riannodare i fili dei ricordi, a ricostruire nei racconti di chi c’era le violente emozioni personali di quegli istanti, di quei minuti, di quelle ore, di quei giorni.
Cercando di capire, noi che eravamo bambini piccoli, e passammo attraverso il nostro dramma personale con la leggerezza e la serenità di chi vive solo la dimensione del presente, senza poter comprendere, e senza conservare ricordi.
Ma non è un rituale stanco nemmeno per la città, per chi visse il dramma, per chi sopravvisse in piazza, per gli amici dei caduti, per chi è nato successivamente, per tutta intera una comunità civile che allora venne brutalmente sfregiata, nel modo più vile e terribile. Con una bomba nella piazza del municipio, che colpì al cuore la città durante l’esercizio più semplice e fondamentale di una democrazia, la manifestazione pacifica delle proprie idee.
Quello sfregio, quel sangue che allagò i portici della piazza, che colorava di rosso i ruscelli di pioggia che scendevano verso via X giornate, sono diventati una parte della nostra storia, della nostra memoria civile, della nostra democrazia.
Allora il ricordo, partecipato dalla città in modo corale, le bandiere nella piazza, i nomi e i volti dei morti e dei sopravvissuti, la commozione sincera anche di chi non c’era, le testimonianze e l’impegno, le dichiarazioni di fedeltà ai valori della convivenza civile, tutto contribuisce a non disperdere il significato di ciò che è accaduto di fronte alla Loggia 40 anni fa.
Resta poi il silenzio, per noi.
La piazza, le bandiere, i volti
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