Di seguito una mia lettera pubblicata sul giornale Il Foglio

Caro direttore, come lei sa io apprezzo l’attenzione che il suo giornale riserva al tema del funzionamento della giustizia nel nostro paese. Un tema decisivo, che attiene alla qualità complessiva della nostra democrazia, perché tocca il delicatissimo equilibrio tra pretesa punitiva dello stato, garanzie e diritti dei singoli, tutela delle vittime, e costituisce altresì una delle leve sulle quali tentare di riavviare lo sviluppo economico del paese. A me pare non si possa non riconoscere che il nostro governo, a partire dal premier e dal ministro Orlando, abbia ben compreso quanto una riforma adeguata di questo sistema inefficiente rappresenti un aspetto rilevante della modernizzazione del paese, e sono persuaso che, pur con tutte le evidenti difficoltà che un tema complesso come questo comporta, si sia mosso nella direzione giusta, a partire dalla priorità assegnata alla giustizia civile, vero buco nero nel funzionamento del nostro sistema.

Per contribuire alla discussione su un tema tanto rilevante, vorrei portare all’attenzione sua e dei suoi lettori alcune ulteriori questioni di principio, che a me paiono rilevanti, e sulle quali sono convinto occorrerebbe uno sforzo ulteriore di riflessione, un pizzico di coraggio in più, anche da parte del mio partito. Osservo anzitutto che non mi sembra ancora sconfitta, nella nostra cultura politica, quella visione panpenalistica che, sulla spinta di reazioni emotive dell’opinione pubblica alimentate dal sistema mediatico, assegna alla sanzione penale il compito di dare risposte a fatti e circostanze che meriterebbero un approccio diverso.

Papa Francesco, in un discorso tenuto ai giuristi nel 2014, ha parlato di populismo penale usando parole chiare e, per me, definitive: “Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina … Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione … In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli, e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”.

Concretamente, ciò comporta la produzione continua e inarrestabile di nuove fattispecie penali, spesso caratterizzate da pene draconiane e sproporzionate, che soddisfano la ricerca immediata del consenso politico, ma finiscono per ingolfare il sistema e assegnare alla risposta penale compiti che non le sono propri. Accanto a ciò io trovo incomprensibile la ragione per la quale si sia nuovamente inabissata nel dibattito pubblico la discussione intorno al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che, come spiega il prof. Oreste Dominioni, alla prova dei fatti significa che “l’esercizio dell’azione penale è affidato alla discrezionalità libera, cioè in termini socio giuridici all’arbitrio, degli organi del pubblico ministero”.

Trovo in ciò, in questo potere sproporzionato e illimitato concesso ai pubblici ministeri, una delle storture più evidenti del nostro sistema penale, un rischio per la natura liberale della democrazia di cui in altri ordinamenti vi è piena consapevolezza. Robert Jackson, che fu procuratore capo al processo di Norimberga e attorney general degli Stati Uniti lo spiego’ bene: “una della maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessuno potrà mai indagare tutti i casi di cui riceve notizia … Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue che può anche scegliersi l’imputato. Qui sta il potere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga le persone da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge a carico praticamente di chiunque. Non si tratta tanto di scoprire che un reato è stato commesso e di cercare poi colui che l’ha commesso, si tratta piuttosto di individuare una persona e poi di cercare nei codici, o di mettere gli investigatori al lavoro, per scoprire qualcosa a suo carico”.

Possiamo allora accontentarci, tollerare che, in nome di un principio dal punto di vista teorico e ideologico comprensibile, sul piano concreto alla pubblica accusa nel nostro paese sia garantito questo livello di discrezionalità, la cui ampiezza assume inevitabilmente sfumature politiche?
Meritoriamente il governo sta introducendo un primo principio di temperamento di questa discrezionalità, attraverso la individuazione di un criterio oggettivo e ragionevole, quello della tenuità del fatto, che può consentire la selezione trasparente e verificabile dei fatti da perseguire.
Il che dimostra che si può ben affrontare il tema senza con questo modificare il principio sancito dalla costituzione. E tuttavia a me pare non possiamo accontentarci, e sia doveroso ragionare più complessivamente di un diverso equilibrio tra autonomia della pubblica accusa e rigoroso rispetto di un principio di legalità, a tutela dell’uguaglianza delle persone e del corretto esercizio della funzione giudiziaria.

Da ultimo, ma non per ultimo, io credo non si possa ignorare la questione della effettiva terzietà del giudice nel rapporto tra le parti all’interno del processo penale. Non conosco uno tra gli avvocati penalisti, i professionisti cioè che di mestiere tutelano i diritti sia degli indagati sia delle parti offese del reato, che non denunci il malfunzionamento del sistema attuale, costruito sulla carta su un modello di processo accusatorio nel quale pubblica accusa e difesa dovrebbero essere sullo stesso piano, e nel quale invece questo equilibrio spesso non si rinviene, per la obiettiva contiguità, di carriera e di stanza, tra i pubblici ministeri e i giudici.

Era lo stesso Giovanni Falcone, d’altronde, convinto della necessità di una specifica formazione professionale del pubblico ministero, diversa per “esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica” da quella del giudice “figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti”. È una questione decisiva per il buon funzionamento del sistema, che troppo spesso viene banalizzata o svilita da chi ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, spesso facendo un processo alle intenzioni di chi la propone.

Pur consapevole che si tratta di un tema da maneggiare con cura io penso non si possa più eludere, e sia giunto il tempo di discutere e immaginare meccanismi in grado di garantire meglio di quanto non accada oggi la effettiva terzietà ed equidistanza del giudice che deve decidere e valutare sulle richieste di pubblica accusa e difesa, pur nella piena salvaguardia dell’autonomia e indipendenza della magistratura, cui ogni sincero democratico è affezionato.

Cito ancora, per concludere, Giovanni Falcone che si chiedeva come fosse “possibile che in un regime liberal-democratico quale quello italiano non vi sia ancora una politica giudiziaria, e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti…mi sembra quindi giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività”

Ecco, se davvero il partito democratico vuole aiutare il governo a perseguire, anche nel campo della giustizia, la stagione di riforme profonde ed incisive che consentano al paese di voltare davvero pagina, non è più il tempo di timidezze e occorre affrontare con coraggio anche questi nodi da troppo tempo sul tappeto.