Discorso ufficiale tenuto a Ospitaletto in occasione del 70° anniversario della Liberazione
Sono trascorsi oggi 70 anni, un tempo lungo due generazioni, da un’altra giornata di primavera, nella quale la natura come al solito, come ogni anno e come accade oggi, si risvegliava dal torpore invernale, e partecipava impassibile e imperturbabile ad un momento che segnava la chiusura di una lunga e terribile pagina della storia del nostro paese. La fine della dittatura, della guerra, dell’occupazione nazista. Ma quest’anno ricorre anche un altro anniversario, che voglio qui ricordare, di un’altra tragedia collettiva che coinvolse il nostro paese, la prima guerra mondiale, nella quale entrammo nel maggio del 1915, vale a dire proprio cento anni fa.
E che non è inutile rammentare, perché la pagina tragica della nostra storia che oggi celebriamo e che si chiuse il 25 aprile del 1945, aveva preso avvio proprio sulle macerie della grande guerra. Un conflitto terribile anch’esso, terminato con una vittoria sul campo raggiunta a caro prezzo nel novembre del 1918, centinaia di migliaia di famiglie mutilate, paesi devastati, fame e miseria, e che aveva lasciato l’Italia in uno stato di prostrazione e difficoltà economiche crescenti.
Su quelle drammatiche condizioni era germogliato un nuovo movimento politico, il partito fascista, capeggiato da un leader abile e spregiudicato, che avrebbe preso il potere nel 1922 con l’ausilio della violenza sistematica, l’incapacità di reazione dei partiti democratici, e l’adesione sempre più massiccia e progressiva di tanta parte della società italiana. Lì, dentro quella sequenza temporale, in quegli anni di transizione drammatici seguiti alla fine della grande guerra, sul finire degli anni 20 del secolo scorso, poco meno di cent’anni fa, prese avvio ciò che si sarebbe tradotto in una tragedia per l’Italia e per gli italiani, una tragedia che si sarebbe conclusa proprio il 25 aprile del 1945, con il paese distrutto, ridotto alla fame, umiliato e sconvolto da una guerra terribile e devastante. Certo, ciò che sarebbe capitato nei successivi 23 anni era imprevisto ed imprevedibile, allorchè il fascismo, attraverso la raccolta del consenso democratico, cioè con i voti degli italiani in elezioni formalmente regolari, tra il 1921 e il 1922 cominciò la scalata al potere. Eppure i germi della malattia che si portava dietro quel nuovo movimento, che agli occhi di una parte consistente degli italiani allora poteva apparire suggestivo, perché evocava l’ordine in un momento di grande incertezza e difficoltà, perché suggeriva una via di uscita apparentemente facile, una scorciatoia, da una crisi complessiva della società italiana, perché era capeggiato da un leader forte e carismatico, dicevo i germi della patologia che avrebbe finito con l’avvelenare la società italiana erano presenti fin dagli esordi, e non erano sfuggiti ai più avveduti tra gli uomini politica dell’epoca.
La violenza sistematica, che le squadracce fasciste fin da subito avevano cominciato ad usare nei confronti di avversari e oppositori, allo scopo di intimidire e ridurre al silenzio le voci contrarie, il significato chiaramente antidemocratico della sua ispirazione originaria, tutta tesa a demolire il senso e la funzione delle istituzioni democratiche, considerate inaffidabili, inefficienti, incapaci di dare risposte, l’ideale del ritorno ad un mitologico passato, con l’evocazione delle radici romane del popolo italiano e l’implicito richiamo ad una superiorità razziale, tutto ciò lasciava trasparire fin da subito i pericoli che il movimento capeggiato da Mussolini stava portando dentro la democrazia italiana. Allora, agli albori della nascita del fascismo, era il momento di agire, con la lucidità e la determinazione necessari per impedire che il fascino che esso esercitava su tanti ambiti della società italiana potesse attecchire, fare presa, rendendo illeggibili o poco visibili i rischi che esso si portava dietro. Ma gli anticorpi allora presenti, dentro una società uscita profondamente ferita e divisa dalla grande guerra, e nonostante la fiera e sempre più temeraria opposizione di tanti esponenti politici del partito socialista, del neonato partito comunista, del partito popolare ed anche di molti liberali, bene quegli anticorpi non erano sufficientemente forti per opporsi al dilagare del consenso che consentì progressivamente al fascismo di mettere le mani sul paese.
E una volta che prese il potere, nel 1922, la deriva che l’Italia era destinata a conoscere fu, a quel punto, largamente inevitabile.
Il delitto Matteotti del 1924, le leggi fascistissime del 1925, che portarono alla messa al bando degli altri partiti politici, della libera stampa, delle garanzie fondamentali di libertà individuale e collettiva, e determinarono così la formale soppressione della democrazia e la nascita della dittatura, furono solo le premesse per ciò che sarebbe accaduto poi, e per la tragedia collettiva che avrebbe sconvolto il paese riducendolo in macerie e in miseria. Le leggi razziali del 1938 furono la logica e coerente scelta di un regime che aveva un impianto ideologico non dissimile da quello nazista, e portarono alla deportazione di migliaia di ebrei italiani, uomini, donne e bambini, ma anche oppositori politici, verso la morte certa nei terribili campi di concentramento, luoghi nei quali l’umanità venne completamente degradata, luoghi del male assoluto ed indicibile pensando ai quali ancora oggi si viene colti dalla vertigine, per l’abisso di dolore dei quali sono stati testimoni. E poi la guerra, il conflitto armato, quella guerra che Mussolini, trionfante, annunciò da Piazza Venezia a Roma ad una folla festante, nella convinzione che sarebbe bastato mandare a morire poche migliaia di soldati per partecipare con l’alleato Hitler alla spartizione delle spoglie dell’Europa. Cinque anni di dolori, di lutti, di stragi, di bombardamenti, di miseria, di fame, di buio.
Ma proprio lì, proprio nel momento più oscuro e tragico, i semi del riscatto e della rinascita, con la lunga lotta di liberazione, allorchè tante donne e uomini, di tutti i ceti e di tutte le provenienze, operai e contadini, professionisti e borghesi, comunisti, socialisti e cattolici ebbero il coraggio di imbracciare le armi per liberare il paese dalla dittatura che ci aveva portato fino a lì, tante donne e uomini che rischiarono, che morirono, per il sogno della libertà. Un riscatto morale che il paese cercò ed ottenne tramite quei coraggiosi che scelsero di darsi alla macchia per aiutare a scrollarci di dosso il morbo che aveva finito con il distruggere il paese.
Uomini come Teresio Olivelli, medaglia d’oro alla resistenza, partigiano deportato e ucciso dalle percosse nemmeno trentenne in un campo di prigionia nazista, fondatore, insieme ad altri partigiani come Andrea Trebeschi, deportato e morto a Dachau, del giornale clandestino il Ribelle dal motto “non ci sono liberatori, ci sono solo uomini che si liberano”, autore di una preghiera che cosi si concludeva “Signore della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”.
Ecco, dopo tutto questo, quelle giornata di primavera, che convenzionalmente fissiamo al 25 aprile del 1945, anche se non tutte le città italiane furono liberate in quella data, e proprio quegli ultimi giorni videro cadere sotto la reazione rabbiosa e disperata dei nazifascisti molti partigiani e combattenti per la libertà.
Dunque il 25 aprile del 1945, la liberazione dal fascismo e dalla dittatura ultraventennale, la fine di cinque anni di guerra e lutti, la fine dell’incubo, l’uscita dal tunnel di tragedie angosciose che non avevano risparmiato nessuna famiglia italiana. Il 25 aprile del 1945, la data della rinascita, dell’avvio faticoso e complesso di un percorso duraturo di pace, di una fase di stabilità e pace mai così lunga nella storia del nostro paese e del nostro continente. E dentro quell’anelito di libertà, quello spirito di rinascita, quella fiducia nel futuro del nostro paese che erano stati motore della resistenza vide poi la luce poco più di due anni più tardi la nostra costituzione repubblicana, che ancora oggi rappresenta il solido fondamento della nostra comunità democratica nazionale.
Allorchè il 22 dicembre del 1947, in un’atmosfera carica di emozione e di speranza, l’assemblea costituente si accingeva ad approvarla col voto compatto di democristiani, socialisti, comunisti e liberali, Meuccio Ruini, che era stato il presidente della commissione dei 75 membri che materialmente avevano scritto il testo, la salutò con queste parole: “Questa è un’ora nella quale chi è adusato alle prove parlamentari, chi è stato in trincea, chi ha conosciuto il carcere politico, è preso da una nuova e profonda emozione. E’ la prima volta, nel corso millenario della storia d’Italia, che l’Italia unita si da una libera costituzione. Un bagliore soltanto vi fu, cento anni fa, nella Roma repubblicana di Mazzini. Mai tanta ala di storia è passata sopra di noi. Questa carta che stiamo per darci è, essa stessa, un inno di speranza e di fede”. E Umberto Terracini, che dell’assemblea costituente era stato Presidente, nella stessa circostanza così si espresse: “L’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un solenne patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perchè se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore. E noi stessi, onorevoli deputati, colleghi cari e fedeli di lunghe e degne fatiche, conclusa la nostra maggiore opera, dopo avere fatta la legge, diveniamone i più fedeli e rigidi servitori. Cittadini fra i cittadini, sia pure per breve tempo, traduciamo nelle nostre azioni, le maggiori e le più modeste, quegli ideali che, interpretando il voto delle larghe masse popolari e lavoratrici, abbiamo voluto incidere nella legge fondamentale della Repubblica. Con voi m’inchino reverente alla memoria di quelli che, cadendo nella lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra libertà e per la nostra indipendenza; con voi inneggio ai tempi nuovi cui, col nostro voto, abbiamo aperto la strada per un loro legittimo affermarsi.”
Questa data che oggi celebriamo è dunque uno spartiacque, quello tra la tragedia e la speranza, tra la dittatura e la democrazia, tra la guerra e la pace. Come hanno detto in questi giorni l’ex Presidente Napolitano e il Presidente Mattarella, oggi si celebra dunque la nostra memoria, le radici della nostra libertà, i fondamenti dei principi su cui si fonda la nostra repubblica. E lo facciamo tutti insieme, tutti gli italiani, senza alcuno spirito di parte, come una grande comunità che si riconosce nei valori che il riscatto morale della resistenza seppe riaffermare. Una pagina della nostra storia alla quale non possiamo non guardare con ammirazione e riconoscenza, noi giovani e meno giovani che non abbiamo dovuto vivere e vedere con i nostri occhi le tragedie che vissero e videro i nostri padri e i nostri nonni. E una data che non possiamo rievocare, celebrare ogni anno, senza ricordare con commozione coloro che diedero la vita per darci la libertà e la pace che oggi godiamo, ricordando i bambini, i giovani, le donne e gli uomini che furono spazzati via dalla tragedia collettiva nella quale ebbero la sorte di transitare. E’ una data alla quale nessuno di noi, rappresentanti delle istituzioni democratiche repubblicane, può permettersi di non tributare un sincero, commosso e deferente omaggio.
Ora certo, spetta a noi, spetta alla nostra generazione, dare prova dell’attaccamento ai valori della democrazia, nella consapevolezza che ognuno deve vivere ed agire nel tempo che gli è dato. Come ricordava un grande giurista e intellettuale cattolico, Arturo Carlo Jemolo, proprio in occasione dell’approvazione della costituzione, ogni generazione deve essere all’altezza delle sfide che ha di fronte, ogni generazione deve aiutare a dare il proprio contributo per costruire un futuro di prosperità e di pace. E allora in un momento nel quale anche il nostro paese vive la condizione difficile di una crisi economica pesante e senza precedenti, nel quale la politica sta cercando faticosamente di trovare una risposta in grado di ridare speranza ad una opinione pubblica smarrita e disillusa, il ricordo dei caduti per la libertà, il ricordo di una data che rappresenta lo spartiacque della rinascita di un paese allora prostrato da una condizione complessiva nemmeno lontanamente paragonabile a quella di oggi, sia lo sprone e lo stimolo a noi, alla nostra generazione, per riprendere il cammino virtuoso dello sviluppo e del progresso civile.
Viva il 25 aprile, viva la democrazia, viva l’Italia.