La scorsa settimana alla Camera, insieme ad un gruppo di colleghi con i quali stiamo cercando di dare un contributo di approfondimento sui temi nell’agenda di governo, abbiamo organizzato un incontro con illustri giuristi e filosofi, da me introdotto e moderato dall’on. Michele Nicoletti, per ragionare della proposta di legge che disciplina le unioni civili.

È stata una buona occasione per fare il punto della situazione sull’attuale stato del dibattito interno al Pd sul testo proposto e già approvato in commissione giustizia al senato. Partirei da alcuni punti fermi.

L’Italia è uno degli ultimi paesi europei che ancora non si è dotata di una adeguata legislazione in materia. Vi è quindi ampia condivisione sulla necessità di provvedere tempestivamente, colmando un evidente ritardo accumulato negli anni, così come del resto più volte richiesto e raccomandato dagli organismi europei e dalla stessa nostra corte costituzionale. Ritardo che riguarda sia la regolamentazione dei rapporti tra le coppie dello stesso sesso, allo stato non prevista in Italia, sia quella delle coppie di fatto, fino ad oggi affidata integralmente alla evoluzione giurisprudenziale.

La proposta di legge si propone dunque di introdurre le unioni civili, un nuovo istituto riservato alle coppie dello stesso sesso, e di disciplinare le unioni di fatto, individuando così, col matrimonio che rimane riservato alle coppie eterosessuali, una sorta di tripartizione dei rapporti tra due persone (matrimonio, unioni civili, coppie di fatto) che appare coerente con i principi costituzionali. Nella sentenza del 138 del 2010, la Corte ha infatti riconosciuto che ai sensi dell’art. 2 della costituzione all’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, “spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Allo stesso tempo, peraltro, la Corte ha esplicitato che tale riconoscimento non deve necessariamente avvenire attraverso una equiparazione con le unioni eterosessuali, “in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.

Se dunque sulla necessità dell’intervento legislativo e sull’impianto proposto vi è ampia condivisione, rimangono ancora irrisolte e oggetto di discussione almeno tre questioni, sulle quali sarà opportuno un supplemento di riflessione. Intanto si deve osservare che nella proposta di legge, ad eccezione della disciplina delle adozioni e della fecondazione, attraverso l’esplicita estensione di tutte le norme di legge ove siano presenti le parole coniuge o marito e moglie anche al partner dell’unione di fatto, si ottiene una sostanziale e integrale parificazione della unione di fatto al matrimonio. In tal modo contraddicendo proprio uno dei fondamenti della legge, che per l’appunto intendeva salvaguardare la specialità del matrimonio, inteso come unione stabile tra uomo e donna.

In secondo luogo la legge prevede la cosiddetta stepchild adoption, ovvero la possibilità anche per il partner dell’unione civile di adottare il figlio naturale o adottivo dell’altro. Una scelta comprensibile, finalizzata a tutelare la continuità degli affetti del minore cresciuto all’interno di una coppia omosessuale, nel caso del venir meno del genitore. E che tuttavia apre il varco alla integrale genitorialita’ da parte delle coppie dell’unione civile. Non solo infatti è probabile che delibando su questa norma la stessa corte costituzionale possa sancire – come ha già fatto la corte suprema austriaca chiamata a decidere sullo stesso caso – che è contrario al principio di uguaglianza consentire ad una coppia omosessuale di crescere un bambino con il meccanismo della stepchild, e non attraverso l’istituto dell’adozione. Ma è verosimile che, attraverso la fecondazione eterologa all’estero, o magari mediante pratiche di utero in affitto, ciascuna coppia di donne o di uomini possa di fatto procreare, creando così la famiglia con doppia mamma o doppio papà.

Una norma, dunque, che finirebbe per rendere giuridicamente possibile una decisa rivoluzione antropologica, in cui la filiazione verrebbe definitivamente disancorata dal normale rapporto eterosessuale, e sempre più legata invece alla tecnica.

L’ultima questione riguarda la disciplina delle coppie di fatto. Una disciplina doverosa, essendo il fenomeno in crescita e non potendo il legislatore demandare ogni scelta alla evoluzione giurisprudenziale, che si è già fatta fin troppo carico di sopperire alle lacune normative. Opportunamente la legge si propone di regolamentare il rapporto come conseguenza del mero fatto della convivenza, a prescindere da una dichiarazione di volontà esplicita della coppia, e ciò anche per significare la differenza tra l’impegno assunto con il matrimonio, e il vincolo più labile legato alla mera condizione del vivere insieme.

Tuttavia, anche qui ci si deve chiedere se la disciplina ipotizzata dalla legge, nel conferire alcuni diritti e doveri ai partner, mantenga il giusto equilibrio o non finisca con lo svilire l’istituto del matrimonio, che invece deve continuare a mantenere il giusto favor legislatoris, stante il suo significato sociale.

Come si vede siamo a buon punto, ma le questioni ancora irrisolte sono significative e decisamente delicate.