In questi ultimi giorni sembra che improvvisamente il centrosinistra e il partito democratico in particolare si siano accorti di un vecchio arnese che avevano lasciato ad impolverarsi nel ripostiglio delle cianfrusaglie ideali, il garantismo.
Un valore che in realtà per lungo tempo ha appartenuto al bagaglio culturale della sinistra, per il semplice ma limpido motivo che con questa parola si allude alla tutela dei diritti e garanzie dei singoli, ed in particolare di quelli più deboli, di fronte ad una delle espressioni più delicate e pericolose del potere costituito, ovvero il potere giudiziario.
Un potere coercitivo che consiste nella facoltà di togliere i diritti alle persone, di togliere la libertà, e pertanto a rischio di abusi, anche di natura politica.
Da più di vent’anni la sinistra aveva rottamato il garantismo, considerato non più utile in un’epoca nella quale solo le inchieste giudiziarie sembravano in grado di consentire al paese il ricambio di una classe dirigente e di un sistema oramai consunti, e tuttavia ancora saldamente ancorati al potere.
Una implicita ammissione di impotenza, di incapacità politica, di inadeguatezza nell’offrire un’alternativa politica convincente agli italiani, pur di fronte ad una classe politica oramai esaurita, che ha suggerito al centrosinistra fin dall’epoca di mani pulite di delegare alla magistratura il compito di abbattere gli avversari politici, di utilizzare quella facile scorciatoia che avrebbe consegnato il paese ad una nuova classe dirigente.
In un tale contesto non solo manifestarsi garantisti era inutile, ma si sarebbe rivelato persino controproducente rispetto ad un sostegno all’azione della magistratura che doveva invece essere pieno e incondizionato.
Così è iniziata una stagione nella quale l’opinione pubblica di centrosinistra e’ stata piano piano convinta che i magistrati, i pubblici ministeri, non solo fossero di fatto infallibili, ma fossero altresì i cavalieri bianchi della moralizzazione del paese, le punte di lancia di una palingenesi politica, gli alfieri di chi si considerava la parte buona del paese, e dunque riteneva tutti gli avversari politici la parte cattiva e viziata.
Questo clima ha contribuito così a caricare la magistratura di un ruolo improprio, che molti giudici hanno finito per cavalcare, in ciò certamente rafforzati dalla presenza sulla scena politica di Berlusconi, che richiamandosi al garantismo per tentare di salvare se stesso ha irrimediabilmente sporcato il significato di quella parola, che in una parte di opinione pubblica e’ diventata sinonimo di impunità. Questo cortocircuito ha nuociuto alla politica e alla giustizia.
La politica, e il centrosinistra in particolare si è trovato sotto il continuo scacco dei giudici, incapace di reagire a qualunque notizia di reato, di distinguere tra ipotesi di accusa e condanne, in una subalternità che è diventata quasi patologica.
E la giustizia penale si è trovata privata di un presidio, quello della tutela rigorosa delle garanzie, che in un sistema civile e democratico di stampo liberale e’ invece da custodire gelosamente, soprattutto a tutela dei singoli sottoposti alla forza soverchiante, per disparità di mezzi con le difese, dell’inchiesta giudiziaria.
E’ bene quindi che oggi nel partito democratico si torni finalmente a parlare di garanzie e diritti nel processo penale, si abbracci finalmente, nella stagione nuova del renzismo, dopo qualche tentennamento e oscillazione contraddittoria, l’idea di un nuovo approccio al rapporto con la giustizia.
Purché questa svolta sia vera e autentica, e dunque vi sia la consapevolezza che si porta con se alcuni corollari imprescindibili.
E cioè che se si vuole evitare di attribuire alle procure della repubblica un ruolo improprio, di natura parapolitica, occorre ridiscutere il principio della obbligatorietà dell’azione penale, vera e propria ipocrisia che attribuisce ai magistrati un potere incontrollato e invisibile nella scelta dei reati, e dunque delle persone, da perseguire. Un potere dunque di natura quasi politica.
E se si vuole consentire ad ogni singolo cittadino indagato di potersi difendere senza essere sottoposto ad un potere quasi inquisitorio, occorre mettere sullo stesso piano processuale la pubblica accusa e la difesa, e su un piano nettamente distinto il giudice che deve valutare.
Il che implica che si affronti una buona volta il nodo di una più netta separazione, anche di carriera, tra i pubblici ministeri e i giudici giudicanti.
Senza aprire una nuova e vera discussione su questi punti la svolta garantista del partito democratico rischia di rimanere un semplice auspicio.
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