Il tema dell’energia è assai complesso, e certamente cruciale per il nostro futuro.

Le scelte di politica energetica di un paese possono condizionarne lo sviluppo, le sue direttrici di marcia, per un tempo considerevole.

E tanto più sono rilevanti oggi, queste scelte, trovandoci sulla soglia di svolte tecnologiche che possono davvero segnare l’avvio di una nuova epoca.

Tutto ciò ha però molto poco a che fare con il referendum indetto domenica prossima, se non per le suggestioni e i significati impropri di cui è stato caricato.

Il referendum ci chiama a decidere se abrogare una norma introdotta da questa maggioranza, che consente lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas già in essere fino al loro esaurimento, ancorché siano collocati entro 12 miglia dalla costa. Ovviamente alla condizione che rispettino le normative di sicurezza e ambientali.

Senza questa norma quei giacimenti, arrivati alla scadenza della concessione, sarebbero da chiudere, ovvero, se ancora sfruttabili, sottoposti alla necessità di rinnovi da parte degli enti autorizzativi. Con tutta la conseguente incertezza da ciò derivante.

Siccome il governo ha ritenuto che occorra dare certezza agli investimenti in questo settore, riducendo altresì ritardi e incertezze legati alla burocrazia, è stata introdotta questa norma, che lega la durata della concessione alla sfruttabilita’ del giacimento.

Cosa succederebbe se questa norma venisse abrogata? Sarebbe necessario ripristinare una durata della concessione indipendente dalla dimensione del giacimento. Ma solo, ripeto, per quelli collocati entro le 12 miglia dalla costa, non per tutti gli altri (che sono molti ma molti di più).

Questo è quanto.

C’entra qualcosa con tutto ciò la politica energetica del paese? Evidentemente ben poco.

C’entra invece, e molto, con la politica industriale, con la capacità di attrarre e incentivare investimenti, con lo sviluppo delle nostre aziende e territori.

Perché deve essere chiaro. Se il paese facesse retromarcia su quella norma non cambierebbe di una virgola il mix di fonti che oggi rappresenta la produzione energetica del paese, né muterebbe minimamente la politica del governo, che è, in modo chiaro ed esplicito, quella di ridurre progressivamente le fonti fossili a favore di quelle rinnovabili.

Si metterebbero invece a repentaglio gli investimenti in essere, si metterebbero i bastoni tra le ruote alle nostre aziende che di ciò si occupano, si ostacolerebbe lo sviluppo di territori collocati quasi interamente nel mezzogiorno.

Insomma, un referendum che non solo è inutile ai fini sbandierati dai promotori, ma che rischia di essere un boomerang dal punto di vista economico per il paese, come ha ricordato tra gli altri Romano Prodi.

Ragioni più che sufficienti, dal mio punto di vista, per auspicare che non vincano i si. Anche con l’astensione, in questo caso scelta politica, motivata, e quindi del tutto legittima.