Diciamo le cose come stanno.

Questo referendum non riguarda l’attuale governo, non riguarda il partito democratico, non riguarda Matteo Renzi.

Riguarda il paese, il futuro dell’Italia, può essere uno spartiacque per chiudere un dibattito quarantennale sulla riforma dei nostri meccanismi istituzionali, per provare a voltare pagina.

Non sarà una riforma perfetta, ma affronta tutti e solo i nodi, le magagne, i malfunzionamenti che tutti, ma proprio tutti, riconoscono come problemi da risolvere: bicameralismo, procedimento legislativo, rapporto stato regioni.

Niente altro.

Non tocca i poteri del governo, non tocca gli organi di garanzia, non tocca, ovviamente, principi, diritti e doveri individuati dalla prima parte della costituzione.

È una riforma di gran lunga più sobria e modesta di quella partorita dalla commissione D’Alema nel 1997, e di quella del centrodestra bocciata dagli elettori nel 2006.

È una riforma che rasenta davvero il minimo sindacale, dopo quaranta anni di discussione.

Alcuni puristi dicono che è scritta male, e dunque non va bene.

Altri che la sua bontà o meno dipende dalla legge elettorale, che però è una legge ordinaria, non è in costituzione: e dunque se il legislatore, in futuro, cambiasse la legge elettorale allora potrebbe diventare una cattiva costituzione, o viceversa.

A tutti costoro, agli schizzinosi e ai fanatici del combinato disposto, ai conservatori che hanno paura del salto nel buio, ai titubanti che invocano il cambiamento salvo tirarsi indietro quando tocca a loro decidere, a tutti loro chiedo: ma vi siete chiesti cosa succede se la riforma non passa? Avete fatto i conti seriamente con le conseguenze della vostra decisione? Avete applicato un serio e rigoroso principio di responsabilità?

Perché è vero che la riforma non riguarda ne Renzi né il partito democratico.

Ma lo sappiamo tutti che la bocciatura della riforma comporterebbe, inevitabilmente, la caduta del governo, e con essa la fine di questa incerta, complicata, ma vera stagione di riforme.

Cosa c’è dopo?

Io penso che lo scenario più probabile sia l’ennesimo commissariamento della politica, il governo tecnico istituzionale, che faccia una nuova legge elettorale, che non potrà che essere proporzionale, e traghetti il paese alle elezioni.

È il ritorno ad una palude che la politica italiana ha conosciuto nel passato, e dalla quale negli ultimi venti anni ha tentato faticosamente di uscire.

Non c’è uno scenario migliore, non c’è dietro la sconfitta nel referendum una possibilità di avanzamento del paese, ma ci sono solo possibili passi indietro, più o meno rilevanti.

Qualcuno se le pone queste domande, tra gli alfieri del no, anche interni al nostro partito?

Davvero le imperfezioni di questa riforma sono tali e tante da non meritare di provare a metterla alla prova, di darle una chance? E pure se il prezzo che il paese inevitabilmente pagherebbe sarebbe un salto indietro?

Nella scelta che ci apprestiamo a fare non ci si può limitare ad una valutazione tecnica della qualità lessicale del nuovo articolo 70, o del funzionamento del nuovo senato.

Occorre un giudizio più complessivo, che metta sul piatto della bilancia anche il peso delle conseguenze del si e del no.

Il sì a questa riforma da minimo sindacale, per quanto imperfetta possa essere, consente al paese di proseguire sulla strada delle riforme.

Il no avrà certamente il pregio, per chi non lo sopporta, di dare un bel colpo a Matteo Renzi. Ma certamente fa rotolare la pallina alla casella di partenza.

Vorrei che ne fossimo tutti ben consapevoli.