Il 2017 sarà un anno molto importante per il futuro dell’Europa.
Andranno al voto politico infatti, in sequenza, l’Olanda, la Francia e la Germania.
Ed è molto probabile che al voto arrivi nel corso dell’anno anche il nostro paese, in anticipo rispetto alla scadenza naturale di una legislatura che, come noto, si era avviata e consolidata sull’obiettivo delle riforme istituzionali, e che ha esaurito la sua spinta avendo mancato quell’obiettivo.
Sono elezioni importanti perché arrivano in un momento assai delicato, in cui l’intero occidente è alle prese con una spinta sempre più forte, nell’opinione pubblica, destinata a mettere in discussione l’assetto politico ed economico tradizionale.
Quella spinta che si è manifestata, in modo inaspettato e perciò tanto più clamoroso, nel referendum sulla brexit in Gran Bretagna e nelle elezioni presidenziali americane.
E in parte, io credo, anche nel recente referendum costituzionale in Italia.
È una spinta, un vento che trova nei movimenti percepiti come anti sistema lo sbocco naturale, e che sta travolgendo confini, barriere, argini, sta mettendo in discussione il modello di sviluppo, la costruzione politica europea, le relazioni tra paesi, tra nord e sud del pianeta.
Ci siamo sempre accontentati, per descrivere questo fenomeno, di un termine un po’ dispregiativo, populismo, quasi a mettere una distanza tra noi benpensanti e loro, gli altri, i populisti appunto, in fondo ignoranti e pericolosi.
Credo sia giunta ora di cambiare atteggiamento, e di fare i conti in modo serio con una spinta che è tutta politica, non anti politica, e che riflette un disagio sempre più diffuso che chi si occupa di consenso, di giustizia, di futuro, insomma chi si occupa di politica, non può permettersi di trattare con sufficienza.
Perché quel disagio ha a che fare con le periferie dell’occidente, con quella parte di società che vive nel nord del mondo ma che ha sofferto in questi ultimi dieci quindici anni una progressiva marginalizzazione, una progressiva erosione economica, che l’ha traghettata sulle sponde di un futuro minaccioso, precario, incerto e insicuro.
Quel fenomeno che noi, un po’ supponenti, abbiamo sempre chiamato populismo non è altro che la rivolta di quelle famiglie che vedono vanificati i sacrifici fatti per fare studiare i figli, che hanno consumato i risparmi di una vita per fare fronte ad una crisi economica lunga e profonda, che non riescono più a garantirsi come in passato un tenore di vita accettabile, che si sentono minacciati da un afflusso migratorio confuso e disordinato, e che pure vedono accanto a loro quella piccola porzione di società che invece in questi anni ha continuato a prosperare e crescere.
Nei decenni scorsi si parlava della società occidentale come quella in cui due terzi sono inclusi e mediamente benestanti, e un terzo è invece ai margini. E si diceva che la politica, se il suo vero scopo è la giustizia, deve occuparsi di quel terzo, che pure non vota, o è ininfluente nelle scelte politiche in quanto minoranza.
Ecco, oggi a quel terzo, che in fondo continua a non votare e quindi a contare poco politicamente, si è aggiunto un altro terzo, che si sente minacciato da un sistema economico e sociale che lo sta precipitando nella marginalità, e che allora vota Trump, l’uomo dell’establishement che si presenta come anti sistema, che vota l’uscita dall’Europa percepita come una gabbia, che vota i partiti nazionalisti che promettono muri e argini all’immigrazione.
L’Italia, come il resto dell’occidente, è tutta dentro questo vento e questo clima.
E non occorre essere dei sociologi per rendersene conto, ma basta leggere i dati e le statistiche. Come quelle sulla povertà minorile, ad esempio, che ci dicono che il 30% circa dei residenti under 18 in Italia sono oggi in condizione di deprivazione materiale, un numero che si è quasi triplicato in questi anni di crisi. Come quelle sulle disuguaglianze dei redditi percepiti, secondo le quali l’Italia è uno dei paesi nei quali questa divaricazione si è più ampliata nel corso degli ultimi decenni. Come quelle sull’immigrazione, che ci segnalano che almeno i due terzi dei richiedenti asilo che giungono nel nostro paese non ne hanno diritto, eppure rimangono sul nostro territorio come fantasmi senza diritti e senza doveri.
Che risposte intendiamo dare a queste condizioni, a queste paure, a queste incertezze?
Possiamo accontentarci di puntare tutto sulla ripresa economica, sul rilancio della crescita? O c’è qualcosa di più da fare, c’è una risposta più complessa e articolata da un preparare e proporre?
La lezione degli Stati Uniti a me pare significativa: un paese che ha conosciuto negli ultimi anni, sotto la presidenza Obama, una continua crescita economica che l’ha proiettata fuori dalla recessione rapidamente, che vede tassi di disoccupazione ai minimi da decenni, e che pure ha votato per l’uomo anti sistema, ha mostrato il volto della rabbia, della marginalità, dell’esclusione.
Dunque ci illudiamo se pensiamo che la crescita economica sia sufficiente.
Occorrono ricette molto più profonde. Occorre attrezzare un’ipotesi di futuro più incisiva, empatica, solidale, coraggiosa.
Per queste ragioni, io credo, siamo davvero dinanzi ad una sfida enorme, e alla vigilia di una fase politica totalmente nuova e diversa da quella vissuta in questa legislatura.
E per questo vorrei che il partito democratico arrivasse alle prossime elezioni a valle di una discussione vera, profonda, dallo sguardo lungo.
Nel corso della quale anche Matteo Renzi fosse messo nelle condizioni di profilare un nuovo progetto, di delineare quell’idea profonda su cui costruire il futuro del paese, di raccontare all’Italia un messaggio di speranza, di solidarietà, di inclusione.
Ne riparleremo, con calma. Intanto, un augurio sincero a tutti di Buon Natale.
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