Le ultime tornate elettorali europee, quella delle regionali in Francia di due settimane fa, e le elezioni politiche spagnole di domenica scorsa, offrono lo spunto per un paio di riflessioni.La prima è la conferma di una tendenza che va consolidandosi in quasi tutti i paesi europei, quella di una presenza crescente di partiti e movimenti alternativi a quelli tradizionali, che stanno contribuendo a frammentare il quadro politico interno.
Nuovi riferimenti tutti più o meno accomunati dall’idea della necessità di un profondo cambiamento delle politiche nazionali, da un esteso e diffuso antieuropeismo, dall’apertura a temi, argomenti e sensibilità che vengono definite populiste, ma che certamente rappresentano sentimenti sempre più radicati nell’opinione pubblica.
Questa tendenza deve interrogare i grandi partiti tradizionali, la loro incapacità, pur essendo gli eredi delle culture politiche più importanti e significative del novecento, di interpretare efficacemente attese e umori dei rispettivi paesi, testimoniata dalla progressiva erosione di consensi.
Un fenomeno che abbiamo conosciuto e sperimentato qui già da da un paio d’anni, con l’emersione prepotente del M5S e la dissoluzione del centrodestra.
In questo contesto, il partito democratico è riuscito a resistere, ed anzi a trasformarsi nell’unico argine al tracimare di questo fenomeno, grazie alla capacità che ha avuto di dotarsi di una nuova leadership e di una nuova proposta politica, oggi incarnata nel percorso di governo.
Una strada difficile e piena di scogli, una transizione non conclusa e certamente con molti rischi, ma tanto più necessaria e doverosa alla luce di ciò che sta succedendo attorno a noi.
La seconda riflessione riguarda il rischio di instabilità che questa frammentazione crescente del quadro politico porta con se.
Testimoniata dall’affanno con cui la Spagna sta vivendo il post elezioni, in uno scenario per essa inedito, eppure da noi vissuto, ahimè, molte volte, l’ultima delle quali proprio nel 2013.
Un affanno, invece, che non ha conosciuto la Francia, pur uscita con un risultato elettorale quasi altrettanto frammentato, e non solo per il fatto che si trattava di elezioni regionali, ma anche grazie al sistema elettorale in uso.
Il doppio turno ha infatti consentito di dirimere ogni questione politica uscita dalle urne affidandosi nuovamente al corpo elettorale, chiamato a scegliere al secondo turno l’opzione preferibile tra le due uscite con più voti dal primo.
Un sistema che funziona, dunque, e che permette di evitare gli enormi problemi che l’instabilità politica dovuta all’eccessiva frammentazione produce nei sistemi politici, il primo dei quali è proprio la debolezza degli esecutivi, la loro incapacità di guardare lontano, la loro difficoltà a fronteggiare le grandi questioni di fronte a noi con lo sguardo alto e lungo.
Sotto questo aspetto, allora, a me pare si confermi felice l’intuizione dell’introduzione del doppio turno anche nel nostro paese, un sistema elettorale che si mostra in grado di funzionare anche in tempi complicati come questi.
Se guardo dunque alla tenuta del partito democratico, alla sua capacità di cambiare per adattarsi al mutato contesto sociale, e alle scelte fatte da questo parlamento in materia elettorale, mi verrebbe da dire che per una volta, forse, è l’Italia che indica la via maestra all’Europa.
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