Dunque mentre si apparecchia in Italia il primo governo a trazione populista dell’Europa occidentale, nel partito democratico va in onda la resa di conti, il redde rationem, la conta finale.

L’assemblea di sabato a Roma ha dato una rappresentazione piuttosto chiara degli umori, del clima, dei sentimenti che si respirano dentro il partito, e che emergono allo scoperto in modo sempre più evidente, e sempre più virulento. 

Un clima da separati in casa, nel quale la visione diversa, la diversa impostazione, le valutazioni differenti che pure in un grande partito riflettono orientamenti culturali non omogenei, e sono legittime, e possono convivere, paiono oramai polarizzate, al punto da impedire un reciproco riconoscimento, da scavare solchi sempre più complicati da varcare o da ricucire.

Ora, che il momento sia delicato e difficile è fuori discussione: siamo reduci da una sconfitta epocale, che colloca l’Italia sul fronte più esposto a quell’onda di piena che ha travolto la sinistra in tutte le democrazie occidentali.

Siamo davanti ad una sfida enorme e difficile, soprattutto da noi. Come ricostruire un’alternativa plausibile al populismo di destra e di sinistra che da noi si sono saldati in un accordo di governo impuro ma altamente sfidante? E come farlo partendo dal nostro misero 19%, e dal nostro attuale e sostanziale isolamento politico? 

Risposte difficili, che richiedono la fatica dell’analisi e l’intelligenza della politica, non certo gli slogan e le tifoserie, e che non possono emergere se ci si limita all’invettiva nei confronti degli avversari, brutti cattivi e populisti, ma solo se ci si misura con i problemi, le paure, le disillusioni di una fetta sempre più grande della società italiana e occidentale.

Tutto questo richiede al partito democratico di avviare in tempi rapidi una discussione, un confronto, un percorso congressuale che consenta di ridefinire una proposta e un progetto politico che sia all’altezza di queste sfide, e di riavviare una navigazione bruscamente interrotta oltre due mesi e mezzo fa.

Ma vi è una precondizione perché ciò possa avvenire.

Ed è precisamente l’unita’ del partito democratico.

Perché, questo deve essere ben chiaro a tutti, senza unità, cioè con ulteriori fratture e scissioni, il partito democratico semplicemente non c’è più.

Bisogna saperlo, mentre si litiga e ci si divide con questi toni forti e dirompenti, bisogna esserne consapevoli: una volta rotto il giocattolo, non si ricostruisce più.

E dopo c’è il nulla, c’è la irrilevanza, c’è il destino del pasok greco, o del partito socialista francese. Non c’è, sia molto chiaro, il partito di Macron all’italiana: perché quello è un fenomeno tutto francese, tutto legato ad una esperienza personale e alla tradizione nazionalista d’oltralpe, e molto figlia del sistema istituzionale transalpino.

Buttare a mare il partito democratico significherebbe disperdere il seme dell’Ulivo, e con esso quel poco che rimane di culture politiche che hanno segnato la storia della repubblica italiana.

Ne vale la pena? Ha senso? 

Certo, c’è da discutere del nuovo profilo, della nuova identità del partito nello scenario politico rivoluzionato dal 4 marzo che ci troviamo di fronte, ma sarebbe sciagurato farlo senza lo strumento che ancora oggi costituisce un grande patrimonio, una grande infrastruttura della nostra democrazia.

Allora, davvero, piantiamola di dire “se vincono loro noi usciamo”: in un grande partito possono, anzi devono, convivere maggioranze e minoranze, certo all’insegna del rispetto delle regole di buona convivenza, ma facendo tutti uno sforzo di reciproca comprensione.

Se dovesse vincere il prossimo congresso un’anima più laburista di quella che ha governato il partito in questi anni, io lo dico subito e a scanso di equivoci, rimarrò dentro, così come nel partito laburista inglese a trazione Corbyn sono rimasti i seguaci di Blair e Miliband, e sosterrò lealmente il mio segretario, senza rinunciare a promuovere le mie idee. E mi aspetto la stessa cosa dagli altri.

Ripartiamo da qui, da una rilegittimazione reciproca.

Siamo sul ponte a litigare per chi si mette al timone della scialuppa di salvataggio, mentre la nave affonda. Forse sarebbe il caso, prima di tutto, di aiutarci a vicenda a calarla in acqua. Altrimenti, saremo naufraghi dispersi tra i flutti.