Ho vissuto da molto vicino la parabola che ha portato Matteo Renzi a diventare segretario del partito democratico e poi presidente del consiglio.

L’ho appoggiato fin da principio, da quando nel 2012 lanciò la sfida, che allora sembrava temeraria, alla leadership di Bersani per la guida della coalizione di centrosinistra.

Ero convinto che quella sfida andasse sostenuta, che da lì potesse partire un percorso che avrebbe dato al partito democratico la fisionomia corrispondente alle sue ambizioni, quella di un partito plurale, capace di parlare a tutto il paese, anche a quei territori e a quegli ambiti sociali che sembravano più refrattari e diffidenti rispetto a una proposta riformista. E capace di tradurre le sue proposte in una coerente ed efficace azione di governo.

Eravamo in pochi, all’inizio. Molti si sono aggiunti per la strada, i più convinti dall’idea, alcuni per opportunismo, altri ancora per inerzia.

Bisogna ammettere che non tutte quelle promesse e quegli auspici sono stati soddisfatti.

Il partito è stato inizialmente capace di rompere argini elettorali impensabili, salvo poi rifluire lentamente verso le proprie ridotte.

Ad una leadership carismatica e innovativa non si è accompagnata la creazione di una classe dirigente all’altezza, di un’area di pensiero in grado di rafforzare e dare basi più solide al progetto, di un luogo di confronto dove trovare sintesi più alte e stemperare tensioni.

Tutto ciò, e un certo solipsismo nell’esercizio della leadership, non è certamente estraneo alle ragioni della scissione da ultimo arrivata, che certamente non ha rafforzato ma anzi indebolito la capacità rappresentativa del partito.

Vedo quindi tutti i limiti e i difetti di questa esperienza, che del resto ho più volte sottolineato nelle mie riflessioni passate, non mi fanno velo le mie convinzioni e la mia piena adesione a questo percorso.

E non c’è dubbio che quando occorre fare un bilancio, come capita in sede congressuale, quando ci si appresta a scegliere e decidere su una linea politica e su un leader, tutte queste valutazioni pesano.

Vi sono però ragioni e argomenti più forti, e più persuasivi, che mi inducono ad appoggiare ancora, convintamente , la proposta politica di Matteo Renzi.

Partendo da una valutazione corretta e spassionata di questi anni di governo.

I critici sottolineano, anche qui, lacune e mancanze, che indubbiamente ci sono.

Però credo che sia fuori discussione che questi tre anni di governo sono stati il tentativo più imponente di riformare il nostro paese degli ultimi venti anni, che poteva trovare il suo coronamento con l’approvazione della riforma costituzionale, ma che in ogni caso ha prodotto risultati concreti e verificabili.

Ricordo bene Angela Merkel che si diceva impressionata per la mole di riforme avviata da Renzi: dalla scuola al lavoro, dalla pubblica amministrazione alle banche, dalla giustizia al terzo settore, dal sistema finanziario all’assetto tributario, non c’è settore della vita del nostro paese che non sia stato affrontato con passione e vigore dal governo Renzi.

Si poteva fare meglio e di più? È ovvio. 

Ma sfido chiunque a mettere in discussione che senza la grande energia e caparbietà del premier si sarebbe riusciti a fare così tanto in così poco tempo. 

E i risultati di questa corsa non sono tutti ad effetto immediato, alcuni produrranno i loro effetti a medio termine, sebbene già oggi i numeri ci dicono che lo sforzo profuso non è stato vano. 

I numeri della crescita, quelli della disoccupazione, della pressione fiscale, del recupero di gettito, del rapporto deficit pil, sono tutti positivi rispetto a tre anni fa.

Certo, grazie anche a politiche in parte espansive concesse da Bruxelles: ma quella quota di flessibilità aggiuntiva ottenuta, occorre sottolinearlo, non è stata regalata, ma è stata conquistata proprio grazie all’imponente treno di riforme messo in campo.

Dunque il bilancio dell’esperienza di governo io credo sia largamente positivo, e testimonia di una capacità, di una tenacia, di una costanza, di una pervicacia che sono virtù autentiche della leadership di Matteo Renzi.

È vero, lo stesso bilancio non può tracciarsi per il partito democratico, che sconta quei limiti e quelle lacune che prima dicevo.

Ma non dimentico che per quante responsabilità si possano attribuire al segretario, la scissione consumatasi è figlia in larga misura della guerra intestina che si è consumata per due anni dentro il partito, con la minoranza che ha condotto una battaglia ai limiti della correttezza contro il governo, e contro il segretario, fino alla scellerata scelta finale di fare campagna elettorale contro una riforma istituzionale votata in parlamento all’unanimità dal partito.

Non sto a ripercorre le tappe di questa vicenda, che ha logorato e stressato a tale punto i rapporti interni da rendere lo strappo finale inevitabile, e francamente non proprio imputabile, al punto cui si era arrivati, a Renzi.

Allora se faccio un bilancio complessivo, e guardo avanti, io credo che quella proposta politica innovativa che Renzi aveva portato quattro anni fa nella politica italiana abbia ancora qualcosa da dire al paese, sia in grado ancora di produrre dei buoni frutti.

Voglio anzi dire che è con Renzi, e dentro il suo campo, e non con altri, che io vedo tuttora la più promettente possibilità di costruire un progetto per il paese in grado di affrontare in modo più efficace le difficili sfide che il futuro ci riserva.

Anche al netto di alcuni suoi limiti, che naturalmente io auspico possano essere corretti, e a patto che quelle potenzialità siano dispiegate meglio, e alcuni errori di conduzione e impostazione del rapporto con il paese e con il partito possano essere corretti.

Sono convinto dunque che oggi sia ancora Renzi il leader in grado di presentarsi al paese con il profilo più forte e convincente, nel campo del centrosinistra, per conquistare i consensi nel paese.

A fronte di ciò mi persuade meno invece la proposta di Orlando, persona che come è ben noto stimo e apprezzo come uno dei migliori ministri del governo Renzi, con il quale collaboro da tre anni con piena sintonia e del quale so di avere la fiducia, ma che alla fine a me sembra proporre un modello di partito, e un progetto politico, già sperimentato senza successo da Bersani.

Da ultimo, e non per ultimo, voglio continuare il tratto di strada iniziato quattro anni fa con i tanti simpatizzanti e militanti che in questo progetto hanno creduto e credono ancora, quelli che mi hanno accompagnato con costanza e generosità, e quelli che ho incrociato solo brevemente nel mio peregrinare per la provincia e presso i circoli.

Dunque si, avanti ancora con Matteo Renzi.

Che sosterrò ancora in modo convinto e leale, ma con il mio spirito libero e critico di sempre: perché in un’epoca che sembra premiare solo le fedeltà incondizionate, l’arroganza, e gli ultrà dell’una o dell’altra fazione, io credo ancora nel valore della mitezza, della serietà, del dialogo.