La cosa che più mi lascia perplesso in questa drammatizzazione della minoranza interna del Pd sulla questione dell’italicum è lo scarto tra l’enfasi delle critiche e la sostanziale modestia delle questioni su cui viene chiesto un intervento. Siamo ad un punto cruciale di questa legislatura, poiché si vede il traguardo su una delle riforme di sistema sulle quali il parlamento ha preso l’impegno politico di agire dopo la paralisi seguente alle elezioni del 2013.
Già, perché non dobbiamo dimenticare che questa legislatura non si è interrotta immediatamente solo perché Giorgio Napolitano, per evitare il rischio concreto di consegnare il paese al populismo più pericoloso e inconcludente, mise i partiti di fronte al bivio: dichiarare all’opinione pubblica la loro impotenza, il loro definitivo fallimento, oppure assumersi l’oneroso compito di trovare la via d’uscita politica dalla crisi, unendo le forze per fare davvero le riforme di sistema attese da vent’anni. Ora sulla legge elettorale, dopo tredici mesi di discussione e due passaggi parlamentari, dai quali è uscita profondamente modificata e migliorata, la camera deve decidere se approvare definitivamente senza ulteriori modifiche il testo uscito dal senato, oppure fare ulteriori aggiustamenti, rinviandola ulteriormente al senato. Sapendo peraltro che lì i numeri della maggioranza sono risicati, e si correrebbe il rischio non indifferente di un ulteriore impantanamento.
In sintesi, la nuova legge elettorale in dirittura d’arrivo prevede un premio di maggioranza fino al 55% dei seggi per il partito che arriva primo nelle urne superando il 40% dei voti oppure, ove nessuno raggiunga quella soglia, l’assegnazione del premio al ballottaggio che si svolgerebbe tra le prime due liste. Prevede collegi da circa 600.000 abitanti che eleggono 5 o 6 deputati, con un candidato di collegio indicato dal partito e scritto sulla lista e gli altri per i quali è possibile esprimere fino a due preferenze di genere. Prevede infine uno sbarramento del 3% per l’assegnazione dei seggi. Dunque un impianto che garantisce la certezza dell’esito delle urne, con un vincitore sicuro, e dunque una tendenziale stabilità politica, mediante un meccanismo, quello del ballottaggio, che favorisce la legittimazione democratica, con un premio di maggioranza in termini di seggi non eccessivo, con la garanzia della rappresentanza di genere, e della presenza in parlamento di minoranze anche esigue. Giova ricordare che questo testo è figlio di profonde modifiche, significativi miglioramenti apportati al senato, dopo che in prima lettura alla camera era uscito con molti punti obiettivamente assai critici e decisamente opinabili, in particolare sulle soglie di accesso al riparto dei seggi e al ballottaggio. Modifiche cui ha concorso in modo non trascurabile anche la minoranza interna al Pd.
Ora, quali sono le ulteriori modifiche considerate così fondamentali dalla minoranza da giustificare lo strappo politico consumato?
La prima richiesta è che sia introdotta la possibilità dell’apparentamento tra liste diverse in occasione del ballottaggio, poiché ciò consentirebbe ad altri partiti di concorrere al premio di maggioranza, garantendo così maggiore rappresentatività al parlamento.
Questa certo è una richiesta non priva di legittimità e ragionevolezza. Che peraltro contraddice quasi tutte le teorie su cui venne immaginato e costruito il partito democratico, nato sulle ceneri dell’Ulivo dall’unione di culture politiche diverse con l’idea di dotare il paese di un partito a vocazione maggioritaria, di un partito cioè in grado di coagulare il consenso della maggioranza dei cittadini attorno al proprio programma. Mi si potrebbe obiettare che la realtà politica italiana così frammentata non consiglia di ridurre forzosamente i partiti presenti in parlamento. Ma a mio avviso è una obiezione che non coglie nel segno, intanto perché quella frammentazione, e la conseguente necessità di costruire alleanze forzate per vincere le elezioni, è stata la principale causa della debolezza dei governi della seconda repubblica. Il che suggerisce di aiutare la semplificazione del panorama politico, favorendo la costruzione di soggetti politici forti e rappresentativi. E poi perché il pluralismo politico viene comunque garantito, visto che entreranno in parlamento i partiti che supereranno una soglia di sbarramento assai bassa, fissata al 3% dei voti.
Insomma, vi sono ragioni che potrebbero consigliare di accogliere la proposta di modifica richiesta dalla minoranza, ma altrettante, e a me pare più convincenti, ve ne sono per difendere la scelta fatta. Si deve ulteriormente aggiungere che l’apparentamento al ballottaggio, anche ove fosse previsto e possibile, sarebbe del tutto eventuale, così come capita nelle elezioni comunali, ove infatti spesso e volentieri tra primo e secondo turno non vi è alcun apparentamento. Il che a me pare sia la prova più chiara ed evidente che non si tratta di un tema così decisivo, e tantomeno di un criterio sul quale misurare il tasso di ragionevolezza della legge.
Il secondo punto sul quale la minoranza ha fatto le barricate consiste nell’accusa alla legge di produrre un parlamento di nominati, poiché nel mix tra capolista bloccati e parlamentari scelti con le preferenze vi sarebbe una maggioranza dei primi. La soluzione sarebbe dunque quella di aumentare la quota di candidati eletti con le preferenze. Ora, che le preferenze siano improvvisamente diventate il criterio distintivo della bontà di una legge elettorale è alquanto stupefacente. Tralascio il fatto che in quasi nessun paese occidentale esistono le preferenze, e mi chiedo invece come si possa sostenere una tesi che contraddice una battaglia su cui il centrosinistra è impegnato da vent’anni, proprio per la consapevolezza dei limiti e dei difetti di un sistema fondato sulle preferenze.
Si obietta: è vero, noi eravamo contro le preferenze, ma la nostra prima scelta erano i collegi uninominali, come nel mattarellum.
Già, ma chi gli sceglieva, e come, i candidati nei singoli collegi? Non erano forse i partiti? Ce li ricordiamo i candidati catapultati in collegi sicuri? E chi oggi sbraita sulle preferenze (penso a qualche amico di partito bresciano) non fu eletto in quanto scelto dal partito nel collegio uninominale cittadino? Aggiungo che il meccanismo dell’italicum non è poi molto dissimile proprio dal sistema dei collegi, poiché il capolista sarà scritto sulla scheda, diventando di fatto il candidato di collegio. E le preferenze sono state comunque reintrodotte, proprio per venire incontro alle richieste della minoranza.
Insomma, la questione sul mix corretto tra candidati di collegio e candidati eletti con le preferenze a me pare veramente una battaglia di retroguardia, e decisamente irragionevole farla diventare dirimente rispetto all’approvazione della legge. Ecco, le modifiche chieste dalla minoranza sono tutte qui. Il che consente di trarre una conclusione. E cioè che il bivio che abbiamo di fronte oggi è questo: da un lato c’è la possibile approvazione di una legge elettorale che, per quanto possa presentare alcuni difetti, costituisce comunque un enorme passo avanti rispetto al sistema attuale, e il raggiungimento di un obiettivo di questa legislatura. Dall’altra parte c’è il rinvio al senato, con il concreto rischio di uno slittamento sine die, pur di approvare alcune ulteriori modifiche che, valutate nel complesso, non solo sono opinabili ma appaiono decisamente residuali. Un piatto della bilancia che, politicamente, pende decisamente e obiettivamente dalla prima parte. E che lascia la sgradevole sensazione che quella della minoranza sia una battaglia del tutto strumentale, condotta a fini di lotta politica interna al Pd, anche a costo di mettere a repentaglio le riforme necessarie al paese.