Ieri in commissione giustizia abbiamo audito numerosi giornalisti e direttori di tutte le più importanti testate, sul tema delle intercettazioni telefoniche disposte nell’ambito di inchieste penali, e dell’uso che se ne fa sui media. La pubblicazione di brani e stralci di conversazioni private, tratte dagli atti, e molto spesso di natura personale ed estranee alle ipotesi di accusa, hanno generato la convinzione che occorra una disciplina più puntuale, che impedisca la gogna mediatica che troppo spesso viene generata da questi eccessi. I giornalisti auditi hanno tutti sostanzialmente rivendicato la natura della loro professione: che consiste nel dare le notizie, ovunque tratte, per disvelare all’opinione pubblica anche ciò che non appare, e che l’inerenza al procedimento penale delle conversazioni non è il criterio per loro distintivo, perché ciò che conta è che la notizia abbia interesse pubblico. E ben può essere di interesse pubblico anche conoscere alcuni aspetti della vita privata di persone che hanno grandi responsabilità.

Una descrizione ineccepibile e difficilmente contestabile della natura più propria del mestiere di cronista. Alla quale mi sono peraltro permesso di obiettare che le conversazioni tra le persone sono protette da un vincolo di riservatezza che ha rango costituzionale, e che può essere sacrificato solo per ben documentate esigenze di giustizia, e non certo per garantire il diritto di cronaca. La tutela della privacy e della riservatezza è garantita dall’art. 15 della costituzione, e costituisce uno dei principali presidi di uno stato di diritto, democratico e liberale, il cui sacrificio può essere consentito solo a certe condizioni, e per esigenze di sicurezza e giustizia. Il sistema oggi invalso in Italia, con la pubblicazione su tutti i giornali di brani di conversazioni di ogni tipo, tratte dalle migliaia depositate agli atti delle inchieste, coinvolgenti spesso persone non indagate, e a volte inerenti anche particolari intimi e personali, a me pare sostanzialmente irrispettoso di quel principio.

Il diritto di cronaca non può trovare tutela quando comporta un sacrificio troppo rilevante di altri diritti altrettanto degni di considerazione. Se ogni diritto personale, ivi compreso quello alla riservatezza, dovesse cedere il passo al diritto dell’opinione pubblica di sapere, dunque al diritto del cronista di pubblicare qualsivoglia notizia, in qualunque modo appresa, perché allora non consentire ai giornalisti di avvalersi di intercettazioni ambientali o telefoniche, a mezzo di investigatori privati, pur di raccogliere informazioni su personalità di interesse pubblico?
Un crinale a mio avviso pericoloso per la tutela dei diritti di libertà.

A me pare allora si debba trovare un nuovo equilibrio tra le esigenze di indagine delle procure, che ovviamente non può essere sacrificata, il diritto di cronaca e la libertà di stampa, anche attraverso una disciplina che individui in modo più chiaro quale materiale tratto dai procedimenti penali sia effettivamente pubblicabile. In questo modo, forse, oltre che garantire il rispetto effettivo di minimi principi di riservatezza, si potrà anche spezzare quell’alleanza perversa tra procure e media che spesso, attraverso la pubblicazione mirata di stralci di intercettazioni, condiziona il giudizio di ampi strati dell’opinione pubblica, trasformando la presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza.