Lunedi 20 luglio, mattina, questura di Brescia, in coda per il ritiro dei passaporti dei miei figli. Sono le 9, ma il fresco del mattino già lascia spazio alla calura umida e appiccicosa, destinata a farsi rovente nel corso della giornata, in questo luglio destinato a entrare nell’albo dei più caldi di sempre. In attesa c’è la varia umanità che si incontra in questi luoghi, un po’ di italiani, tanti stranieri. Vedo bimbi di colore vestiti in abiti tradizionale, altri abbigliati all’occidentale, che si rivolgono ai genitori alternativamente nella lingua d’origine o in un italiano dallo spiccato accento bresciano. A un certo punto entra un signore vestito con una tunica bianca, senza baffi ma con barba lunga e folta di un colore bianco rossastro, e dietro di lui un ragazzo alto e un bambino in passeggino, accompagnati da una donna coperta da una tunica nera lunga fino ai piedi, e due occhi che compaiono in mezzo a un velo nero e spesso che le nasconde integralmente la testa e il volto. Li osservo, con un crescente senso di disagio e inquietudine. Disagio alla vista di una donna costretta a coprirsi in questo modo, in una rovente giornata di luglio, probabilmente destinata a vivere chiusa in casa, a non frequentare donne occidentali, e inquietudine per una cultura che fatica a integrarsi, a fare proprie le nostre libertà e i nostri diritti, e dal cui seno figliano anche le degenerazioni integraliste che danno vita al terrorismo globale.
E mi rendo conto quanto questo disagio ed inquietudine stiano attraversando l’opinione pubblica, già stressata e affaticata da condizioni di difficoltà economica, e della crescente paura strisciante, la paura dell’immigrato, dell’immigrazione, destinata a non distinguere più, a trascinare tutti i diversi, indistintamente, in un gorgo di diffidenza che alimenta le diversità, le separatezze. E poi mi viene in mente quella bimba di dieci anni, caricata dal padre, un ingegnere siriano, su un barcone del terrore e della speranza, per fuggire dalla guerra, dalle atrocità che si consumano da anni nel suo paese. Immagino la disperazione che muove un padre in quella situazione, un genitore disposto a far vivere alla propria figlia i rischi, la violenza di un viaggio su un barcone nel mediterraneo. Quella bimba in più ha il diabete, prende l’insulina, ma lo zainetto nel quale il padre ha infilato le fiale per il viaggio viene strappato di mano e gettato dagli scafisti. E la bimba durante la traversata comincia ad agonizzare, e poi muore nelle braccia del padre. E finisce nel mare, come decine di migliaia di altri bambini, donne e uomini alla ricerca della speranza.
E allora penso alla responsabilità della politica, che deve muoversi tra questi due estremi, tra queste enormi difficoltà, alla ricerca di una soluzione, di una via di uscita. Tenendo conto delle inquietudini, legittime, ma senza perdere un orizzonte. Che non può essere quello del muro invalicabile, ma deve gettare le basi per una convivenza meno rischiosa e conflittuale, più idonea ad affrontare le grandi questioni globali da cui originano queste ondate migratorie. Politica responsabile, dunque, non ipocrita, populista, demagogica e cinica. Come quella della Lega di Salvini, che per acchiappare voti si allea, di fatto, con i fascisti del terzo millennio, Casa Pound e Forza Nuova, che aizzano le folle contro tutti i migranti, tutti, a prescindere, anche contro quel padre siriano, come già hanno fatto con un certo successo i nazisti di Alba Dorata in Grecia.
Cinici e ipocriti, i leghisti, che quando erano al governo facevano le più grandi sanatorie e chiedevano alle regioni di ospitare i richiedenti asilo, che ripetevano il mantra “aiutiamoli a casa loro” ma intanto riducevano fino ai minimi storici i fondi per gli aiuti allo sviluppo.
Allora occorre gestire la situazione, evitare allarmismi e impostare una politica seria, richiamando l’Europa alla sua responsabilità ma cominciando da noi. E bene ha fatto Renzi, all’assemblea di sabato scorso, ad assumere un impegno passato inosservato ai più, quello di fare risalire in un paio d’anni il nostro paese per gli stanziamenti di fondi pubblici destinati al terzo mondo, nella graduatoria tra le sette economie occidentali più importanti, dal fanalino di coda fino al quarto posto. Ma questo non basterà, se non attueremo una politica dell’immigrazione seria e rigorosa, basata su una organizzazione capillare e studiata a tavolino, che gestisca il fenomeno migratorio con grande rigore, tappando i buchi e le falle che si riscontrano a tutti i livelli. Se vogliamo resistere e vincere contro la crescente inquietudine del mondo occidentale, contro questa tenaglia formata da terrorismo internazionale e timori sempre più diffusi, occorrono politiche pubbliche internazionali ed interne coerenti ed efficaci.
La paura non serve, la pietà non basta.