I costi e i privilegi dei politici sono un argomento da trattare con cautela e prudenza.
Vi è infatti una diffusa opinione, che risponde ad un senso comune largamente dominante, secondo cui coloro che hanno cariche pubbliche godono di emolumenti e prebende eccessivi, e che i costi complessivi per il funzionamento delle istituzioni sia esorbitante, soprattutto se messo a paragone con i risultati che la politica può esibire.
Dentro questo senso comune vi sono molte buone ragioni, molti motivi fondati: vero è infatti che il numero dei parlamentari è eccessivo, che percorsi di maggiore sobrietà ed economia sono possibili a tutti i livelli, che un certo professionismo della politica rischia di trasformare la rincorsa ad un ruolo pubblico in rincorsa ad un reddito, che la politica molto spesso offre di se una immagine mediocre, quando non pessima.
E tuttavia non è inutile ricordare che dietro le critiche e le insofferenze nei confronti della politica, e dei suoi costi eccessivi, veri o presunti che siano, si celano spesso pulsioni e venature molto rischiose: sappiamo bene che la democrazia costa, che le istituzioni costano, ed una polemica indistinta e indifferenziata contro di esse rischia di minarne autorevolezza e prestigio, rischia di corroderne le fondamenta.
La storia ci insegna che la dittatura nel nostro paese, come in Germania, si fece largo attraverso la denigrazione sistematica del sistema dei partiti, delle istituzioni democratiche: un’aula sorda e grigia definì la camera dei deputati, in modo sprezzante, Mussolini.
Allora quando si affrontano questi temi occorre equilibrio, ragionevolezza e, fatemi dire, anche un po’ di senso delle istituzioni, di cura della democrazia.
Virtù difficili da esercitare nel clima che si respira nel paese, che addossa alla politica ogni male e responsabilità per ciò che non funziona, che addita i politici come una casta di privilegiati e imbelli, un clima avvelenato alimentato da mezzi di informazione disinvolti e spregiudicati, e da movimenti politici privi di scrupoli nel mistificare la verità pur di solleticare la pancia del paese a raccogliere qualche voto in più.
E tuttavia pur in questo clima quell’equilibrio va cercato, quelle virtù vanno praticate.
È su questo terreno che il pd si è mosso mettendo mano alla questione dei trattamenti pensionistici dei parlamentari e dei consiglieri regionali, con la legge Richetti approvata oggi in prima lettura alla camera.
Una legge che non abolisce i vitalizi, per il semplice fatto che i vitalizi sono già stati eliminati nella scorsa legislatura, tanto è vero che tutti noi parlamentari di prima nomina matureremo una indennità a 65 anni, calcolata in base ai contributi versati, con un sistema dunque analogo a quello di tutte le altre pensioni.
La legge, dunque, per noi parlamentari di prima nomina, si limita ad eliminare qualche ultima minima incongruenza, ma non incide sul sistema già vigente.
Ciò che invece si innova profondamente è il trattamento degli assegni in corso di erogazione per i deputati già cessati dal mandato, nonché il calcolo delle pensioni di coloro che siedono ancora oggi in parlamento ma che hanno già fatto altre legislature.
Per tutti costoro gli importi erano calcolati sulla base delle discipline pro tempore vigenti, che consideravano il vitalizio una indennità diversa dalla pensione, correlato alla funzione svolta, e che viste con gli occhi di oggi appaiono in molti casi sproporzionate o irragionevoli.
Si è cioè ritenuto che un principio di maggiore equità e giustizia, in uno col fatto che gli importi di tali pensioni assorbono una parte assai rilevante della spesa complessiva del parlamento, suggerisse di intervenire per ricondurre tali assegni a maggiore equilibrio.
È vero che, così facendo, si interviene su diritti già maturati, tuttavia si tratta di una scelta che si giustifica sia per lo stretto ambito cui si riferisce, sia per il principio di ragionevolezza che la ispira.
Un intervento mirato, dunque, che ci consente di poter sostenere che ci siamo mossi con responsabilità su un terreno delicato e difficile, facendo un passo avanti verso l’equità e la sobrietà della politica, senza minarne fondamenta e autorevolezza.