Dunque siamo ufficialmente in campagna elettorale. E come sempre accade si polarizzano le posizioni, si dilatano le distanze, crescono i toni, imperversano gli slogan.

Capita sempre più spesso nel dibattito politico, ma in campagna elettorale si raggiunge l’apice.

Dentro questo immenso circo mediatico delle parole, amplificato dai social network, i fatti nudi e puri si perdono, inghiottiti dal fumo della propaganda.

Ma tornare ai fatti, ai numeri, ai risultati, non è un esercizio inutile.

In fondo quando si vota, nell’epoca postideologica e liquida che ci contraddistingue, lo si dovrebbe fare non solo in ragione dell’affinità ideale con un partito o della simpatia personale per un leader, ma ancor più sulla base di una valutazione, di un giudizio sui risultati di chi ha governato.

E i numeri offrono una prima indicazione utile.

Allora io vorrei provare a mettere in fila un po’ di numeri, ma vorrei farlo con un’analisi critica e, per quanto mi è possibile, obiettiva del loro reale significato.

Si tratta naturalmente di numeri ufficiali, verificabili.

Il pil, ciò che misura l’andamento dell’economia, è passato in questi cinque anni dal -2,8% del 2012, al +1,8% atteso per il 2017. È questo il dato più inequivocabile che, come dice l’Osce, “l’economia italiana è in via di ripresa dopo una lunga e profonda recessione” o, come dice in modo più colorito Stanard & poor’s, “gli italiani si sono uniti al ballo con il ritorno della ripresa”.

Insomma, in questi cinque anni in cui, incidentalmente, ha governato il pd, l’Italia è uscita dalla più grave crisi del dopoguerra. Non è male, no? Mi pare ci sia di che essere contenti.

Si obietta: vero, ma siamo sempre indietro rispetto alla crescita degli altri paesi europei.

Il che è corretto, ma anche qui si trascura di sottolineare che questo gap di crescita ce lo portiamo dietro da almeno 20 anni, e che in questi ultimi lo abbiamo quanto meno ridotto (per essere precisi lo abbiamo più che dimezzato, nel 2012 avevamo un gap di crescita rispetto alla media europea di -1,9%, oggi il gap è di -0,7%).

E non siamo più il fanalino di coda, neanche tra i grandi paesi, visto che abbiamo agganciato la Francia e superato la Gran Bretagna.

Per lungo tempo si è poi detto che, si vero, c’è la crescita, ma è una crescita senza lavoro, la disoccupazione resta alta.

Anche qui, i numeri e le statistiche vengono in soccorso. Nel 2014 la disoccupazione ha toccato il picco del 13%, l’ultimo dato appena uscito la da all’11%. Non solo, la disoccupazione giovanile è calata nello stesso tempo dal 44,2% al 32,7%, e il tasso di occupazione ha raggiunto e superato il picco pre crisi del 2008, oltre 23 milioni.

Non male vero?

Anche qui si obietta: ma si tratta per lo più di posti precari. Il che non è del tutto vero, perché del milione di posti di lavoro creati circa il 52% è a tempo indeterminato.

E quando si parla di posti precari ci si dimentica sempre di ricordare che, grazie al Jobs Act, abbiamo praticamente azzerato le forme di lavoro più insidiose, precarie e inaccettabili di tutte, che erano le false partite iva e i cosiddetti co.co.pro.

Ma tutto ciò, questa ripresa economica, questi posti di lavoro, li abbiamo creati mettendo nuove tasse, o magari facendo nuovi debiti sulle spalle degli italiani?

La risposta a entrambe le domande è no. La pressione fiscale è calata dal 43,7% del 2015, al 42,3% di quest’anno. Il rapporto tra deficit e pil, che misura appunto quanto si spende in rapporto al prodotto interno lordo, è calato dal 3% del 2012 al 1,6% previsto per il 2018.

Dunque l’economia è uscita dalla crisi, la disoccupazione è calata, e tutto ciò è avvenuto senza pesare sulle tasche dei cittadini e senza fare nuovi debiti.

Mica male, non credete?

Si dice però che tutto ciò non ha ridotto le disuguaglianze, il diffuso disagio sociale, l’handicap e il ritardo di molte aree del nostro paese.

E qui c’è poco da obiettare, chi lo dice ha ragione, e anche qui sono i numeri impietosi dell’istat a certificarlo: in questi anni la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale è rimasta sostanzialmente invariata: erano il 29,9% degli italiani nel 2012, erano il 30% nel 2016, ultimo dato disponibile. Un numero impressionante e inaccettabile.

Ma anche qui, sarebbe falso dire che siamo all’anno zero. Perché nel 2017 è entrata in vigore la nuova misura di contrasto universale alla povertà, il reddito di inserimento, che andrà a regime nel 2018 con una dotazione di 1,7 miliardi di euro (mica bruscolini…), e che è ragionevole pensare contribuirà a migliorare significativamente quel dato.

Ecco, questo sono numeri, questi sono fatti.

È merito nostro? No, lasciatemi parafrasare Gentiloni, è merito vostro, è merito degli italiani, dei lavoratori, delle imprese, delle famiglie, dei giovani, di tutti coloro che si sono rimboccati le maniche.

Ma la politica ha accompagnato, non ha ostacolato, ha cercato per quanto possibile di dare una mano.

Noi andiamo alle elezioni forti di questi risultati, che non saranno miracolosi, che non saranno risolutivi, ma che, lo dico sinceramente, mi riempiono di orgoglio e mi danno molta speranza per il nostro futuro.