Ieri ho partecipato a Roma ad un incontro organizzato dall’Arel, l’associazione fondata da Beniamino Andreatta, e oggi presieduta da Enrico Letta, in cui si discuteva di un tema tabù per la giustizia in Italia, il concreto funzionamento del principio della obbligatorietà dell’azione penale.

Un convegno che avevo suggerito e contribuito a organizzare, e che mi ha così consentito di sedermi ad un tavolo davvero prestigioso, insieme al ministro Orlando, al presidente di Anm Davigo, al professor Fiandaca, luminare del diritto penale, a Paola Severino, ex ministro della giustizia, e alla presenza di tante figure qualificate tra cui Enrico Letta e Giuliano Amato.

Insomma una occasione davvero interessante.

Nella quale ho avuto modo di proporre alcune considerazioni che qui sintetizzo e semplifico.

Il principio costituzionale dell’azione penale obbligatoria, che per garantire l’uguaglianza di trattamento dei cittadini davanti alla legge obbliga i pubblici ministeri a perseguire qualunque notizia di reato, nella realtà concreta non è applicabile. Per il semplice ma ineludibile fatto che sono troppe le notizie di reato che giungono presso le procure, ed è impossibile istruirle tutte.

Dunque, nei fatti, ogni pubblico ministero fa una selezione, che però è del tutto discrezionale, opaca, libera, non verificabile. In una parola arbitraria.

Ciò comporta non solo un sacrificio del principio di eguaglianza, poiché ad ogni procuratore corrisponde una diversa modalità di scelta dei reati da perseguire, ma comporta altresì un irrazionale e non efficiente utilizzo delle risorse. Ogni pm infatti dispone della polizia giudiziaria, decide i mezzi di indagine. E se tutto ciò avviene in modo irrazionale, poco proporzionato o solo per alcuni filoni di reati si produce una inefficienza nel sistema della repressione penale.

Questa conclamata imprevedibilità nelle scelte e nella operatività delle procure contribuisce altresì alla ben nota diffidenza nei confronti del funzionamento della giustizia italiana che scoraggia molti investitori esteri.

Si tratta insomma di una questione certamente delicata, ma che attiene al buon funzionamento del nostro sistema.

E che non a caso era uno dei punti centrali della riflessione di un magistrato indipendente e autorevole come Giovanni Falcone, che aveva sostenuto che “se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarci nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del pubblico ministero per l’esercizio delle sue funzioni“, e aggiungeva che era giunto il momento “di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli alla sua attività“.

In un’epoca nella quale si sta tentando una grande opera di trasformazione del paese, è troppo chiedere di affrontare anche questi tabù, nel modo più serio e rigoroso possibile, nell’interesse di una giustizia più credibile ed efficace?