Siamo nella fase dell’analisi della sconfitta. È bene sia così, e occorre prendersi tutto il tempo necessario.
Ciò naturalmente non ci mette al riparo dalle decisioni che la politica di tutti i giorni ci mette di fronte, e che ci impongono scelte e valutazioni senza dilazioni, ma non possiamo smettere di ragionare su di noi, su quello che è successo, su ciò che sta accadendo, sul futuro nostro e del nostro paese.
Lo stiamo facendo dentro il nostro partito, con incontri e assemblee affollati e appassionati, che quanto meno testimoniano di un desiderio di partecipazione e di una volontà di presenza confortanti.
Ma la riflessione dovrà essere lunga, senza pretendere di avere risposte semplici o immediate, perché mano a mano che si dipana il ragionamento, e si guarda a ciò che sta accadendo da noi e nel resto del mondo, e più ci si accorge che qualcosa di profondo sta trasformando le nostre democrazie, l’occidente democratico.
Provando a prendere il sacco in cima, e tentando di offrire un contributo alla nostra riflessione, io riassumerei in due i principali temi di riflessione sui quali il partito democratico, così come tutti i partiti di centrosinistra europei, devono interrogarsi per provare a indicare nuove ed inesplorate strade.
Il primo è il tema più e più volte evocato della paura, dell’incertezza, dell’insicurezza che domina il nostro tempo, che come una macchia d’olio sta dilagando in ambiti sociali sempre più estesi, e che origina le risposte elettorali che hanno determinato anche i risultati del 4 marzo.
Si è detto e scritto molto, su queste paure: che sono figlie della crisi economica e delle crescenti disuguaglianze, che trovano appigli robusti nei flussi migratori costanti e incontrollati, che sono determinate da una perdita di speranza e fiducia nel futuro.
Tutto vero. Ma forse bisogna provare e declinare meglio l’origine di queste insicurezze, metterle a fuoco con più lucidità.
C’è in particolare una nuova categoria economica nelle nostre società, che a me pare descriva meglio di qualunque altra la condizione diffusa di disagio presente: quella dei cd. working poors.
Quella cioè di persone che hanno un lavoro, ma che ciononostante si trovano a rischio di marginalità, esclusione o povertà a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza e della precarietà della loro occupazione, delle scarse prospettive di crescita del loro lavoro.
Una condizione diffusa e pervasiva, che colpisce soprattutto i giovani, tanto che qualche sociologo sostiene che noi siamo la prima generazione del dopoguerra che prepara un futuro peggiore per i propri figli. Credo non a torto.
E dunque la questione del nostro tempo è forse proprio questa, quella del lavoro, della grande, enorme trasformazione che sta subendo, e che sta mettendo a repentaglio la dignità, la sicurezza, il futuro delle persone, dei nostri figli in particolare.
Può sopravvivere una società disposta a sacrificare ogni cosa, anche il lavoro, al nuovo totem intoccabile, il consumatore?
Che risposte abbiamo da dare su questo fronte? Che idee abbiamo da portare, per battere le risposte protezioniste, isolazioniste, assistenzialiste, che viceversa sono destinate a vincere, in assenza di alternative?
Forse da qui sarebbe utile ripartire.
Il secondo tema può apparire forse un po’ pretestuoso, o perfino un tantino fumoso, ma invece io sono persuaso individui un’altra questione decisiva.
E attiene alla strutturale debolezza delle nostre democrazie di fronte agli strumenti di comunicazione e di relazione di massa noti come ‘social network’.
Quegli strumenti che sono entrati in modo morbido ma sempre più invasivo nelle nostre vite, che attraverso quella vera e propria protesi artificiale che è diventato il telefono cellulare sono costantemente con noi, ai quali offriamo tutto di noi stessi, senza alcun pudore, alcuna limitazione.
Ai quali regaliamo ogni informazione su di noi, che può essere utilizzata per fini di marketing, ma anche per finalità politiche.
È di questi giorni la scoperta che una società di relazioni pubbliche, Cambridge Analityca, avrebbe utilizzato illegittimamente i profili di 50 milioni di persone tratti da Facebook per condizionarli attraverso messaggi mirati e manipolatori nella campagna elettorale delle presidenziali americane.
Non so dire se sia un’accusa fondata, lo scopriremo col tempo.
So però che questo è solo l’ultimo di una serie inquietante di episodi, oramai conclamati, che ci segnalano come l’industria delle fake news, i professionisti più spregiudicati del web, spesso al soldo di potenze straniere che hanno l’interesse a destabilizzare l’occidente, abbiano agito in modo massiccio in tutti gli ultimi importanti appuntamenti elettorali sfruttando le potenzialità di manipolazione impressionanti che questi strumenti consentono, raggiungendo capillarmente e in modo fulmineo centinaia di milioni di persone.
E sappiamo bene, lo sanno bene in particolare gli inglesi e gli americani, che basta condizionare e spostare poche percentuali di votanti, anche solo il 2% o 3%, per cambiare il corso della storia.
Io ho l’impressione che le opinioni pubbliche libere e aperte delle democrazie occidentali non siano ancora adeguatamente preparate e attrezzate per resistere a queste manipolazioni, e che questo fenomeno abbia contribuito a polarizzare le opinioni, a esacerbare gli animi, a enfatizzare pulsioni e sentimenti sempre più estremi, antisistema.
Non intendo sostenere che i movimenti populisti sono stati creati dal web, questo no, ma il web ha contribuito a gonfiarne le vele.
E questo sta contribuendo a indebolire le nostre democrazie.
Come reagire e rispondere adeguatamente a questa sfida credo sia una questione che diventerà sempre più centrale per chi abbia a cuore la solidità dei nostri sistemi istituzionali.
Non è certo questo un terreno su cui costruire una identità o un progetto politico, ma sarà il caso di tenerne conto, se non si vuole correre il rischio di andare alla guerra con la cavalleria contro i carri armati.