Si sta realizzando, nel dibattito interno al partito democratico, una curiosa e preoccupante convergenza di interessi tra posizioni diverse, apparentemente opposte, e che puntano alla disarticolazione dell’attuale assetto del partito.

Da un lato c’è il mondo degli orfani di Renzi, di coloro che non hanno elaborato il lutto, che stanno nel pd ma non vedono l’ora che nasca qualcosa di nuovo, un altro soggetto politico che si stacchi finalmente da un pd a trazione di sinistra.

A costoro solletica la pancia Carlo Calenda, brillante e accattivante leader iscritto al partito da circa un anno, che peraltro sostiene apertamente come il centrosinistra per tornare vincente abbia bisogno di una gamba liberaldemocratica, che lui sarebbe disposto a guidare facendo uno “spin off” dal pd, ma solo in accordo con il segretario.

Un’idea, questa, che piace molto anche ad una parte non trascurabile della maggioranza che sostiene Zingaretti, quella che si colloca su un fronte opposto rispetto a Calenda, e che pure, magari senza dirlo troppo ad alta voce, vivrebbe come un sollievo la fuoriuscita dal pd di Renzi e del mondo a lui legato, in modo da tornare saldamente egemone nel partito del quale si sente in qualche modo titolare naturale e legittimo.

Anche per costoro la nascita di un partito di centro che si alleasse poi con un pd definitivamente collocato a sinistra sarebbe l’opzione migliore.

Costituisce indizio rilevante di questa opinione (peraltro sentita teorizzata da me personalmente da rilevanti dirigenti del pd bresciano) una intervista rilasciata al Fatto Quotidiano da Peppe Provenzano, neo responsabile lavoro della segreteria Zingaretti, il quale richiesto di un opinione sull’idea del partito di Calenda risponde che, si, il tema di non consentire che il centro scivoli a destra esiste, ma non può essere il pd a farsene carico.

Bene, anzi male. 

Io la penso esattamente all’opposto.

La penso esattamente come l’ha detta Lorenzo Guerini nella direzione di lunedì scorso.

Io penso che questa scelta sarebbe un salto carpiato all’indietro di 15 anni, sarebbe la fine dell’esperienza del partito democratico, e che il nostro paese abbia invece bisogno di un forte partito, saldamente di centrosinistra, capace di parlare alla intera società italiana, con forte vocazione maggioritaria.

Un vero “country party” o “people’s party”, come lo teorizzava Nino Andreatta, con l’ambizione di raccogliere la maggioranza dei voti degli italiani, come riuscì a fare non più tardi di 5 anni fa, corrispondendo per la prima volta nella sua giovane storia alle sue ambizioni.

L’ingegneria politica per cui ci si divide di comune accordo, e ciascuno va a presidiare una parte di elettorato per poi mettersi d’accordo, mi pare il tentativo nostalgico di un gruppo dirigente incapace di delineare una proposta politica convincente di rifugiarsi nell’alchimia elettorale, nella speranza di fuggire alla propria responsabilità.

Al prezzo di distruggere l’unico strumento che abbiamo per costruire una vera alternativa a questo governo sempre più sovranista e populista.

E un particolare che sfugge a questi grandi strateghi è che se una scissione si realizzasse davvero, se qualcosa di nuovo dovesse nascere, non è scritto da nessuna parte che si alleerebbe con quel che residuerebbe a sinistra. Chiaro?

Allora, io mi batterò fino all’ultimo, con Lorenzo Guerini e tutti coloro che ancora condividono queste idee, per ridare al partito democratico il respiro e lo sguardo che solo un grande partito popolare e di centrosinistra può garantire.

Sperando che l’attuale segreteria si svegli: finiamola di guardarci l’ombelico parlando di noi stessi, e proviamo a costruire una proposta politica capace di ridare speranza ad un paese impaurito e incupito.

Individuiamo quattro o cinque questioni prioritarie, indichiamo le nostre soluzioni, parliamo delle cose che faremmo noi.

E poi i voti arriveranno, e penseremo anche alle strategie elettorali.