Diciamoci la verità, la questione più drammatica e urgente che questo governo deve impegnarsi a risolvere, l’emergenza occupazionale e la ripresa economica, ha poco a che fare con l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Nella sua relazione di ieri, Matteo Renzi lo ha fatto capire piuttosto bene, spiegando che l’uscita dalla crisi infinita che avvolge il paese (le mie figlie tredicenni mi chiedono se avranno mai la ventura di vivere in un paese non in crisi, dato che da quando hanno minima capacità di capire non sentono parlare d’altro) sarà possibile solo intervenendo in modo deciso ed efficace su una molteplicità di nodi e lacci che impediscono alla nostra economia di sviluppare le proprie potenzialità, dalla soffocante burocrazia, alla giustizia civile, al fisco.
In tutto ciò riveste un ruolo non certamente secondario la riforma del mercato del lavoro, che si compone di diversi tasselli, tra cui la riforma e il riordino dei sussidi di disoccupazione, la semplificazione dei contratti di lavoro, la centralizzazione degli uffici per l’impiego, il decentramento della contrattazione, la disciplina della rappresentanza sindacale.
La riforma dell’art. 18, in questo complessivo panorama, è ben poca cosa.
Soprattutto alla luce del fatto che la norma è già stata modificata in modo significativo dalla legge Fornero del 2012, che ha esteso il reintegro per licenziamenti discriminatori a dirigenti e aziende sotto i 15 dipendenti, al contempo introducendo per i licenziamenti di natura economica una mera facoltà di scelta del giudice se reintegrare nel caso di manifesta insussistenza dei motivi, ovvero un indennizzo negli altri casi.
In buona sostanza già oggi per i licenziamenti dovuti a ragioni economiche minimamente fondate l’obbligo di reintegro non esiste più, ma c’è solo l’indennizzo economico, e per quelle palesemente infondate esiste solo una facoltà di scelta del giudice tra reintegro e indennizzo, come in Germania.
Lo spazio di riforma dell’art. 18 pertanto, se si esclude, come ha spiegato lo stesso Renzi, il licenziamento discriminatorio o quello disciplinare infondato, che rimangono assistiti dalla tutela reale, si riduce a ben poca roba, riguardando tutt’al più la eliminazione della discrezionalità del giudice nel caso di manifesta insussistenza dei motivi economici addotti dall’imprenditore.
Si può seriamente credere che questa piccola modifica dello statuto dei lavoratori sia in grado di incidere sugli obiettivi di ripresa economica e uscita dalla crisi che abbiamo davanti?
Certo, l’eliminazione di un fattore di incertezza per l’impresa, legato alle conseguenze di un licenziamento di natura economica considerato illegittimo, può essere considerato utile e positivo, e abbastanza ininfluente per i lavoratori, che già oggi in larga maggioranza, in casi analoghi, preferisce essere indennizzata.
E tuttavia non vi è dubbio che la effettiva e concreta portata di una riforma del genere sarebbe molto limitata, non solo sul piano dei diritti ma anche agli effetti di una ripresa occupazionale, a meno di non voler seriamente credere che per un imprenditore intenzionato ad assumere personale il rischio di reintegro in caso di licenziamento illegittimo (a differenza del rischio di un indennizzo corposo) costituisca un rilevante elemento di dissuasione.
Ma allora che senso aveva imbarcarsi in questa discussione?
Qui invece la risposta è più politica, e non può prescindere dal significato simbolico che l’art. 18 ha finito con l’assumere in questi anni.
Affrontare questo tema, considerato in modo quasi dogmatico da una certa parte della sinistra e del mondo sindacale che io considero eccessivamente conservatori, ed esibire la forza politica necessaria per plasmarlo, significa lanciare un messaggio preciso e significativo all’opinione pubblica, italiana e non solo.
Significa che il governo non arretrerà di fronte a tabù e rendite di posizione, che il tentativo di cambiamento radicale che costituisce la sua ragione d’essere non farà sconti a nessuno, anche a costo di scontentare mondi tradizionalmente più vicini al suo bacino elettorale, che non si è minimamente esaurita la consapevolezza che non vi è alternativa, oggi, che agire con coraggio e risolutezza, perfino un pizzico di incoscienza.
E in un momento nel quale i motori dell’economia, mercati, imprese e consumatori, vivono molto di fiducia e aspettative, la forza e l’impatto di questi messaggi lanciati dalla politica è tutt’altro che irrilevante, tutt’altro che marginale, anche ai fini del buon esito del piano di riforme necessario a uscire dalla crisi.
Se dunque questo è il messaggio, se questo come credo è ciò che da questa vicenda ha percepito e compreso l’opinione pubblica, allora io credo che per quanto modesta sia sul piano di merito e concreto la questione dell’art. 18, il gioco sia valso la candela.