L’Italia è un paese con un grande problema di comportamenti privati e di etica pubblica.
La soglia di tolleranza che abbiamo per piccole illegalità, lievi infrazioni alle regole, atteggiamenti poco rispettosi è molto alta, e dentro questa cultura che ci portiamo dietro finiscono per prosperare anche le grandi illegalità, sia quelle commesse dai privati nell’esercizio delle loro attività economiche, sia quelle che coinvolgono i pubblici poteri e la politica più in generale. E’ dunque questo della illegalità diffusa e pervicace un problema vero del nostro paese, che dipende da un nostro radicato atteggiamento culturale, e dentro il quale trova terreno più fertile che altrove anche la criminalità organizzata, quella che infettando e condizionando l’economia legale mina in modo rilevante la competitività del nostro sistema economico.
Per questo motivo le illegalità vanno combattute su tutti i terreni, dotando magistratura e forze dell’ordine di strumenti idonei ed efficaci a reprimere abusi e illiceità, e prima ancora cercando di mantenere il livello dei nostri comportamenti privati e pubblici su un piano di rigore etico e comportamentale che ci metta al riparo dai rischi di corruzione dei costumi e delle abitudini. Dobbiamo però guardarci, io credo, anche dagli eccessi opposti, ovvero dall’esasperare un clima sostanzialmente moralizzatore e giustizialista di natura un po’ giacobina, che rischia di trascinare tutto e tutti, un po’ alla rivoluzionaria, dentro un tritacarne dal quale nessuno è destinato a salvarsi.
E’ un po’ ciò che io vedo ogni volta che viene resa nota una inchiesta della magistratura che coinvolge esponenti politici a vari livelli. Le procure, spesso spinte da una insopprimibile vocazione a sentirsi autentiche se non uniche portatrici di una palingenesi dei costumi, tendono a raccontare all’opinione pubblica i risultati delle proprie inchieste attraverso affollate conferenze stampa dalle quali le loro tesi, che sono niente altro che le ipotesi dell’accusa, emergono come verità sommarie e incontrovertibili, rilanciate come tali da tutti i media, che sanno quanto nel momento attuale l’opinione pubblica sia assetata e desiderosa di notizie e fatti che gettino ulteriore discredito sulla classe politica, e dunque agiscono di conseguenza.
Questa alleanza di fatto tra procure vocate alla moralizzazione della vita pubblica, stampa e media interessati a dare in pasto all’antipolitica dilagante i fatti di cui si nutre, cittadini disillusi e nauseati, finisce per stritolare la verità, e per strangolare la politica, in un circuito perverso che le sentenze destinate a giungere ad anni di distanza, anche quando attestino che le tesi dall’accusa erano infondate, non sono in grado di impedire. L’opinione pubblica diffida della politica, e tende dunque a dare pregiudizialmente credito a qualunque fatto che ne giustifica o alimenta la diffidenza, senza curarsi troppo della sua fondatezza.
In questo contesto tentare di capire, di smorzare i giudizi in attesa di sentire le versioni dei fatti degli accusati, di separare illeciti veri da comportamenti semplicemente inopportuni ma non illegali, di considerare i singoli episodi e il contesto generale per evitare di travolgere l’intera impalcatura istituzionale, tentare di fare tutto questo appare esercizio quasi impossibile, soprattutto per chi è coinvolto nella vita politica, che rischia di passare per indifferente o, peggio, quasi connivente.
Eppure io credo che se vogliamo offrire un servizio al paese, se vogliamo evitare di minare alla base le fondamenta delle nostre istituzioni, abbiamo il dovere di uscire da quel circuito perverso, dobbiamo sentire tutta la responsabilità di cercare la verità anche dentro il clima rovente che obbliga ad andare controvento, abbiamo il dovere di individuare e separare gli onesti dai disonesti, abbiamo la necessità di leggere lucidamente i fatti e gli episodi per esprimere giudizi e valutazioni completi e liberi. Dobbiamo farlo tutti, dobbiamo sentire tutti questa responsabilità, tutti gli attori di queste vicende, i magistrati, i giornalisti, gli esponenti politici, perché esercitare questa responsabilità significa in questo momento particolare, io credo, fare un servizio vero alla politica e dunque anche alle istituzioni.
Allora io non mi accoderò alla folla osannante e inneggiante alle procure, non mi allineerò ai giudizi sommari e definitivi, non cadrò nel tranello della politica che alimenta l’antipolitica finendo per divorare sé stessa. Ma continuerò a provare ad esercitare il mio ruolo pubblico con prudenza e ragionevolezza offrendo il mio contributo, per quanto piccolo e modesto, per aiutare la politica ad essere all’altezza del suo compito, e l’Italia a uscire da questo clima avvelenato e pericoloso.
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